di Fabrizio Russo
La serie prodotta da Netflix “La regina degli scacchi”, tratta dall’omonimo romanzo di Walter Tevis, è ufficialmente il successo più grande nella storia della piattaforma di streaming statunitense: nei primi 28 giorni dal rilascio infatti, la serie creata da Scott Frank e Anya Taylor-Joy ha superato i 62 milioni di stream. Tralasciando gli aspetti tecnici e narrativi che non ci interessa approfondire in questa sede, un elemento certamente interessante che salta subito all’occhio sono i continui riferimenti all’Unione Sovietica. Con lo scorrere delle puntate emerge un particolare interesse dei cittadini sovietici nei confronti del gioco degli scacchi: sono ricorrenti le immagini di strade piene di lavoratori di ogni categoria, giovani e meno giovani, cimentarsi nel gioco di strategia per eccellenza. Ad un occhio meno attento (e possibilmente meno interessato agli aspetti storici che prescindono la narrazione romanzata della serie) quest’immagine del popolo sovietico appassionato al gioco degli scacchi può sembrare un’esagerazione ideata dai registi della serie per aumentare l’hype in vista dello scontro finale tra la protagonista e il vecchio campione del mondo sovietico. In realtà quelle immagini sono forse tra le più reali e coerenti che una serie televisiva occidentale abbia mai realizzato sui paesi dell’ex Unione Sovietica.
Ma come nasce questa passione e come la rivoluzione sovietica ha contribuito a diffonderla? Com’è noto, gli scacchi hanno una tradizione millenaria. In Russia, come in tante altre parti del mondo, questo tipo di attività era a lungo rimasto confinato ai salotti intellettuali e aristocratici (soprattutto sotto la reggenza zarista). Era risaputo che gli zar avessero l’hobby di giocare a scacchi durante le loro vacanze estive (sorge spontaneo chiedersi quando effettivamente lavorassero) e per questo si portavano al seguito i loro avversari di scacchiera. A seguito della Rivoluzione d’Ottobre, i bolscevichi distrussero questa tradizione elitaria del gioco degli scacchi, rendendolo di fatto un’attività accessibile a tutti, attraverso vere e proprie lezioni nelle scuole e nei campeggi dei pionieri. Studenti, lavoratori e pensionati si sfidavano ovunque: nelle pause lavorative, nei giorni di riposo, nei luoghi di ristoro, nei parchi, nelle spiagge e in montagna. Il gioco degli scacchi era largamente praticato anche in ambienti militari, in cui le strategie e le tattiche di guerra si confondevano con quelle di gioco, al quale era conferita elevata importanza. Sono tante le testimonianze di generali dell’armata rossa che, fieri della loro abilità con gli scacchi, diventavano estremamente competitivi con i loro compagni in armi. A testimonianza di ciò, Nikolaj Krylenko, vecchio Comandante in capo dell’Armata Rossa, non ebbe esitazioni nel “considerare l’arte degli scacchi come un’arma politica”.
Le partite e i tornei nazionali di scacchi erano molto seguiti e venivano trasmessi alla radio e in tutti i luoghi pubblici, catturando così l’attenzione dei lavoratori che, finito il turno di lavoro, si affrettavano per seguire la partita in diretta. Senza voler in alcun modo spoilerare il finale della serie in questione, l’Unione Sovietica, negli scacchi come in molti altri sport, fu una delle nazioni più vincenti nei tornei internazionali. Tra il 1927 e il 1993, dei 13 campioni del mondo di scacchi che si susseguirono negli anni, ben 11 erano di nazionalità sovietica. Questo dimostra l’importanza che il modello di società socialista conferisce alla cura del corpo e della mente. I lavoratori sovietici, non essendo vincolati a turni massacranti sui posti di lavoro, avevano un tempo libero a disposizione che gli consentiva di coltivare passioni, hobby, attività fisica; di condurre uno stile di vita sano e slegato dalla schiavitù del lavoro salariato. Il crollo dell’Urss ha inevitabilmente stoppato anche questo primato di cui godevano le popolazioni dell’ex unione, ma non ha impedito alle vecchie generazioni di tramandare alle nuove generazioni la passione per il gioco degli scacchi.