di Giovanni Ragusa e Giacomo Canetta
Giorni fa il nuovo segretario del PD, Enrico Letta, si è sbilanciato toccando un tema che ormai da 30 anni è un cavallo di battaglia dell’Unione Europea, ovvero l’Erasmus. Nel suo intervento, Letta ha affermato con convinzione la necessità di rendere obbligatorio, per tutti gli studenti universitari, un’esperienza di Erasmus trimestrale: una proposta, dice, che potrebbe benissimo essere finanziata con i fondi del Next Generation EU, vista come necessaria per far capire “che insieme agli altri paesi si possono risolvere i problemi”.
Si tratta di una proposta, dunque, che vorrebbe rendere obbligatorio per tutti gli universitari italiani uno strumento che, negli anni, è stato fatto oggetto di un’apologia senza contraddittori, completamente depoliticizzato e visto così, semplicemente, come un modo per “conoscere altre culture” ed ampliare il proprio bagaglio culturale. Proprio in questo modo, partiti come il PD hanno cavalcato per anni l’onda lunga dell’entusiasmo giovanile per la possibilità di visitare paesi lontani “unendo l’utile al dilettevole”, rendendo l’Erasmus un jolly da inserire in ogni programma elettorale. Esso è stato così reso un ottimo strumento di propaganda, che spesso trascende le sigle partitiche per entrare nell’alveo delle più generiche offerte dell’Unione Europea, la quale indipendentemente dalle sue politiche antipopolari riesce sempre ad uscire con una faccia pulita agli occhi di molti studenti con questo evergreen. Reso addirittura simbolo di una generazione secondo alcuni, l’Erasmus è divenuto allo stesso tempo un emblema unilaterale dell’identità europea, ed in particolare dei giovani europei, che troverebbero in questa esperienza il ponte verso la realizzazione delle loro ambizioni nel “paese dei balocchi” UE, ma al contempo prenderebbero coscienza della matrice comune che lega tutti gli stati dell’Unione.
Ma proviamo ad uscire dalla propaganda e torniamo con i piedi per terra, osservando la realtà dei fatti: cosa vorrebbe dire rendere obbligatorio l’Erasmus per tutti gli universitari?
Basta partire dalle attuali esperienze Erasmus di molti giovani per comprendere che c’è qualcosa di intrinsecamente illogico nella proposta del segretario dem. Chi progetta un periodo di studio all’estero si ritrova, il più delle volte, inserito in un contesto che è ben lontano da quello di provenienza dal punto di vista accademico a causa dei differenti gradi di integrazione dei sistemi didattici europei, tra loro mal traducibili nella maggioranza dei casi. A ciò bisogna poi aggiungere le difficoltà linguistiche implicite in qualsiasi forma di studio all’estero, che significano nella maggioranza dei casi uno studio dai programmi semplificati, il che rende svilente la propria formazione dal punto di vista più propriamente didattico e finisce per sfociare in esami che sono mere formalità. Non di meno vanno segnalati i diversi problemi che si riscontrano nella convalida degli esami da un Ateneo estero a quello di appartenenza, il che porta spesso gli studenti a selezionare degli esami solo per la preoccupazione di avere rispettate le medesime classi di concorso o, peggio, ad inciampare in ritardi nel completamento degli studi e quindi ad andare fuoricorso, con tutti i disagi che ciò purtroppo comporta. In più, un fattore non secondario sono le cifre che l’UE mette a disposizione sotto forma di borsa di studio per chi sceglie di intraprendere un’esperienza all’estero: parliamo di quote che variano in maniera alquanto simbolica in base al reddito ed al paese di destinazione, secondo il principio per cui lì dove il costo della vita è più elevato maggiore sarà la quota spettante. Il problema è che questo principio si applica con variazioni di 50€ in base ai contesti, con borse assai ridotte tramite cui bisognerebbe provvedere autonomamente ad assicurarsi un alloggio, oltre alle spese di spostamento che sono tutte a carico dello studente. Dovremmo veramente rendere obbligatorio l’Erasmus per tutti gli universitari italiani su queste basi secondo Enrico Letta, dunque?
Ma porre la questione solo su questo piano rischierebbe di mettere in risalto una serie di elementi certamente importanti, ma che sono collaterali rispetto al vero fulcro del progetto Erasmus, ovvero la sua funzionalità per il capitale europeo. D’altronde, se nel periodo 2014-2020 l’Italia ha finanziato questo progetto con 131 milioni di euro, per circa 40mila studenti che ne usufruiscono (3.275€ a studente), a fronte di soli 510 milioni di euro per i ben 2 milioni di studenti universitari tramite il finanziamento delle misure a supporto del diritto allo studio (255€ a studente), deve esserci qualche interesse ulteriore al semplice senso di responsabilità verso la formazione cosmopolita dei giovani italiani. Andare a studiare all’estero, al di là della semplice questione “apprendimento di una nuova lingua/cultura”, comporta l’immissione in sistemi di istruzione che, seppur ancora distanti in parte tra loro, sono spinti sempre più verso un generale appiattimento dell’insegnamento su comuni standard europei, nei fatti proseguendo stabilmente sull’indirizzo dato dal “processo di Bologna”.
In particolare, le continue intromissioni da parte di grandi aziende e multinazionali negli Atenei è un elemento che si va consolidando in ogni università e che comporta un dato strutturale a livello continentale, ovvero la direzione dei piani di studio e della ricerca seguendo le immediate necessità produttive di questi enormi monopoli. Tutto ciò è funzionale al mantenimento di quel modello di “flessibilità” che per i giovani lavoratori altro non significa se non precarietà costante e reiterata: vagare tra più Atenei che favoriscono la guida delle offerte formative a privati terzi, infatti, porta il futuro lavoratore a sviluppare competenze che sono quelle richieste esclusivamente da queste imprese, che si ritrovano a trasformare le università in scuole di formazione a costo zero, con una manodopera che sarà pronta ad essere assunta con la sfilza di contratti e contrattini accomunati dal tempo determinato e dalla ricattabilità, grazie alla schiera di forza-lavoro tutta formata con le medesime competenze. Il progetto di Letta, ad uno sguardo più approfondito, sembra dunque un assist a quella borghesia italiana che continua a trovare nel mercato unico europeo il terreno ideale alla concentrazione monopolistica e che spera forse, in questo modo, di potersi giovare di un più alto grado di integrazione dei sistemi di istruzione accademica, così da ottenere un’ulteriore massificazione delle competenze della manodopera.
Il fenomeno dell’aziendalizzazione dell’istruzione dimostra così di avere molti punti di contatto con il progetto Erasmus. In un certo senso, il fatto di preparare una forza lavoro “internazionalizzata”, flessibile, precaria, con conoscenze sempre più standardizzate in tutto il continente ha la funzione di adeguare la formazione e l’istruzione superiore alle richieste del mercato. Così facendo, fattori tutto sommato “neutrali” o finanche positivi – la conoscenza di più lingue o la capacità di comprendere meglio altre culture – vengono utilizzati per piegare l’istruzione alle necessità delle imprese. È un meccanismo non così diverso da quello che vede adeguare sempre più la formazione scolastica alle richieste delle imprese locali – si pensi all’alternanza scuola-lavoro.
A questi aspetti concreti, materiali, si aggiungono gli aspetti ideologici del progetto Erasmus a cui si faceva riferimento pocanzi. Il fatto che lo stesso Letta abbia fatto spesso riferimento a questioni ideologiche nelle sue affermazioni recenti – “L’idea di un grande progetto di questo tipo genera la comunità dei giovani cittadini europei” – mette l’accento sui risvolti tutt’altro che pratici della proposta. Il ruolo simbolico del progetto Erasmus è stato spesso sottolineato, in quanto viene utilizzato come “esempio positivo” che possa mettere in ombra le problematiche che affliggono la gioventù del continente europeo. A ciò si aggiunge il lento e graduale processo, a cui l’Erasmus è senza dubbio funzionale, di creazione e consolidamento di un’identità europea, che cerca di dipingere l’UE come un’istituzione progressista e che difende gli interessi della gioventù d’Europa. Un’identità che ammanta di ideologia la reale natura del progetto dell’Unione Europea.