di Ivan Boine
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“Vengo da una famiglia comune, una famiglia di lavoratori come ce ne sono milioni nella mia patria socialista. I miei genitori sono due semplici russi ai quali la Rivoluzione d’Ottobre ha dato una vita piena e dignitosa.”
12 aprile 1961. Ore 9:07 di Mosca. 60 anni fa, Jurij Gagarin era il primo essere umano a volare nello spazio, a bordo della navicella Vostok-1. L’Unione Sovietica inaugurava una nuova tappa nel progresso dell’umanità, dimostrando cosa può fare la classe lavoratrice al potere. Gagarin divenne subito il simbolo di speranza per milioni di persone in tutto il mondo. Poco dopo il volo, venne invitato da diversi paesi del mondo a raccontare la sua esperienza: Brasile, Bulgaria, Canada, Cuba, Cecoslovacchia, Finlandia, Islanda, Regno Unito e Ungheria.
Jurij Gagarin era un giovane comunista che aveva appena compiuto 27 anni al momento del volo. Era un normale cittadino sovietico: era figlio di una contadina e di un carpentiere che vivevano in un kolchoz, una fattoria collettiva, nel villaggio di Klušino. Da bambino aveva vissuto il trauma dell’occupazione nazista e di una guerra che, seppur vinta, aveva segnato profondamente la società e l’economia dei sovietici. Dopo la guerra poté studiare e lavorare. Nel giro di 4 anni, nel 1955, fu ammesso alla scuola militare di volo di Orenburg, prima tappa della sua formazione aeronautica. Jurij era questo, un ragazzo normale a cui il socialismo aveva dato la possibilità di valorizzare il suo talento.
«Pensai al costruttore capo e al Vostok. I collettivi di scienziati che avevano impegnato tutta la loro intelligenza, le loro energie e il loro lavoro per costruire questa nave cosmica potevano esserne fieri. Cercai anche di immaginare gli uomini e le donne che avevano preso parte alla costruzione del Vostok e, allora, davanti ai miei occhi, vidi sfilare colonne di lavoratori, come il giorno del Primo Maggio sulla Piazza Rossa. Avrei voluto vederli all’opera nei laboratori, nelle officine, ringraziarli, stringere loro la mano. Perché sulla Terra non c’è niente di più bello che l’uomo impegnato nel suo lavoro».
Queste parole di Gagarin, tratte dalla biografia Non c’è nessun dio quassù, ritraggono bene la sua persona e il contesto in cui visse. Nonostante tutte le contraddizioni che attraversavano l’URSS in quel periodo, lo stato sovietico promosse un’idea di progresso costruita da uomini e donne per il benessere dell’umanità. Il viaggio della Vostok-1 fu un successo della società socialista che aveva formato i lavoratori e le lavoratrici che permisero tale missione, che indirizzò la scienza e la tecnica per un obiettivo comune.
Nelle nostre scuole e università vige la parola d’ordine della “neutralità” della ricerca scientifica. Con questa retorica le imprese private hanno plasmato secondo le proprie esigenze le facoltà tecnico-scientifiche degli atenei. Addirittura, come testimonia il caso de La Sapienza di Roma, rappresentanti delle aziende entrano negli organi direttivi delle università pubbliche. Il progresso tecnico-scientifico viene messo a servizio del profitto privato, al di là poi della lettura mediatica che viene data. Problemi di estrema rilevanza, come il cambiamento climatico causato dal sistema di produzione capitalistico, non vengono affrontati per garantire i profitti della classe padronale.
60 anni fa Gagarin volava nello spazio, il potere dei lavoratori faceva avanzare l’umanità intera. Questa è l’eredità che dobbiamo sentire sulle nostre spalle, che devono sentire specialmente gli studenti e le studentesse di quelle facoltà scientifiche che con la retorica della “neutralità” favoriscono l’arricchimento di pochi. «Girando attorno alla Terra, nella navicella, ho visto quanto è bello il nostro pianeta. Il mondo dovrebbe permetterci di preservare ed aumentare questa bellezza, non di distruggerla!». Ora sta a noi.