Il 15 aprile del 1944 i partigiani gappisti di Firenze giustiziavano Giovanni Gentile, ideologo del fascismo italiano. Una vicenda che storicamente ha generato discussioni anche in ambienti antifascisti. Proponiamo a tal proposito un estratto dalla Storia della Resistenza scritta da Pietro Secchia e Filippo Frassati.
«La giustizia partigiana colpiva così i membri di quei “tribunali assassini” la cui funzione Giovanni Gentile, il filosofo esaltatore della violenza, aveva tentato di giustificare come mezzo idoneo a riportare, legittimando le rappresaglie indiscriminate, ed in tal modo intimorendo i ribelli, la concordia nel paese.
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La giustizia del popolo eseguì la sentenza anche contro il vecchio corruttore che della sua intelligenza e della sua cultura s’era servito per guastare le coscienze di generazioni di giovani e che ancora si prestava a giustificare l’ultimo e più ignobile fascismo cercando di coprirne l’abiezione con gli stessi argomenti che venti anni addietro aveva usato per esaltare come “forza morale” anche il ricorso al manganello.
Il 15 aprile i gappisti fiorentini giustiziarono Giovanni Gentile. L’esecuzione della condanna fu accolta con animo costernato anche da taluni antifascisti, ed in seno al CLN toscano la maggioranza si abbandonò a malinconiche recriminazioni per la morte del filosofo che, in nome di un’etica superiore, avrebbe dovuto essere risparmiato poiché “nei primi decenni del secolo aveva incarnato il miglior pensiero filosofico italiano”.
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In altri termini: nulla da obiettare quando la giustizia partigiana colpiva uno sciagurato sbirro, anonimo e forse anche sprovveduto al punto da non avere piena coscienza della criminalità del suo agire: ma guai a toccare una personalità della cultura, un uomo dal nome prestigioso. Sulle montagne e nelle città, in quella primavera del 1944, cadevano a migliaia gli operai e i contadini, e della loro morte era assai più responsabile Giovanni Gentile che non il milite o il “marò” che aveva sparato contro di loro. L’aveva ben compreso Concetto Marchesi, ed era stato proprio lui, un uomo che ben degnamente rappresentava la vera cultura italiana, a chiedere conto a Gentile del suo operato “in forma più alta e solenne” di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi tribunale (l’esperienza del dopoguerra insegna); ed era stato lui, Concetto Marchesi, a pronunciare solennemente la sentenza di morte eseguita dai gappisti fiorentini».
(Pietro Secchia e Filippo Frassati, Storia della Resistenza. Ed. Riuniti Roma 1965. Vol.2, pp. 575-576)
In foto, Giovanni Gentile con Benito Mussolini.