L’Italia di oggi non è figlia della Resistenza partigiana. È figlia, semmai, del suo tradimento. Può sembrare un’affermazione forte, e spesso negli anni è stata tacciata della facile accusa di estremismo. Eppure, tre quarti di secolo dopo, la realtà ci presenta davvero il conto.
Uno storico oggi molto popolare, Alessandro Barbero, faceva non molto tempo fa (link) questa osservazione: «è inevitabile che venga un giorno in cui le giovani generazioni non si commuoveranno più davanti alla Resistenza, come noi non ci commuoviamo più davanti al Risorgimento. Non è ancora proprio venuto proprio perché quelle cose vengono usate ancora oggi come clava nella politica attuale». È una riflessione interessante, quella su come e in che misura un immaginario fondato su determinati eventi storici si tramandi tra le generazioni. Ma in questo caso specifico si potrebbe osservare che la seconda cosa è connessa alla prima: è precisamente il modo in cui la Resistenza viene utilizzata “come clava” nella politica di oggi, dalle istituzioni, nelle scuole, che non può avere altro risultato che il progressivo allontanamento dei giovani dall’ammirazione verso i partigiani.
La Resistenza che viene raccontata oggi è una Resistenza delle anime belle, svuotata di qualsiasi tipo di contenuto. Viene tramutata in una generica liturgia istituzionale sulla libertà (d’impresa… questo di solito viene omesso per un residuo di decenza, ma il senso è quello), confezionata ad uso e consumo dei custodi dell’ordine esistente, e spesso agitata a periodi alterni da quel centro-sinistra che, quando ha bisogno di recuperare consensi elettorali, lancia appelli a una generica unità antifascista per battere le destre così da poter fare peggio delle destre una volta al governo. Nel 2018 abbiamo visto il PD, cioè il partito del “Jobs Act” (cioè dell’attacco frontale ai diritti dei lavoratori) e della “Buona Scuola”, condurre un’intera campagna elettorale agitando la chiamata antifascista contro Salvini. Non si contano le performance canore di “Bella Ciao” in Parlamento, spesso usata per legittimare vere e proprie porcherie. Una prassi che lascia gioco facile alla destra, e rischia anche di legittimare, sul medio periodo, l’effettivo spostamento a destra dell’asse del termometro politico del Paese, cosa che è già avvenuta. Stando così le cose, è più che legittimo chiedersi perché un giovane dovrebbe appassionarsi a questa Resistenza.
La verità è che migliaia di giovani che scelsero la lotta partigiana non lottarono per un’Italia in cui i giovani vivono nell’incubo dell’insicurezza sul futuro, della disoccupazione e della precarietà. Non hanno lottato per un’Italia in cui, come nell’800, si torna alle lotte operaie per chiedere le 8 ore contro lo sfruttamento selvaggio nelle fabbriche, o in cui i padroni possono comodamente rivolgersi ad agenzie di sicurezza privata per prendere a calci e pugni i lavoratori in sciopero, cioè per fare quello che facevano le camicie nere nel Ventennio. Non sono morti per vedere manager guadagnare migliaia di volte lo stipendio dei loro operai, per vedere norme fasciste applicate tutt’oggi dai tribunali (come quelle del codice Rocco), per l’Italia che oggi rafforza la propria politica imperialista in Africa e nel Mediterraneo orientale, per lo strapotere dei grandi monopoli e della finanza.
Questa verità si può rimuovere solo se si rimuove dalla memoria chi furono gli animatori della Resistenza. Si trattava, in larghissima maggioranza, di partigiani comunisti e socialisti. I più giovani avevano maturato la propria coscienza antifascista sotto il tallone di ferro del regime, in famiglie segretamente antifasciste o, ancora, messi davanti agli orrori della guerra. I capi partigiani più anziani, invece, avevano spesso storie da film, come diremmo oggi. Uomini e donne che avevano vissuto il carcere fascista, la lotta in clandestinità, l’espatrio in Francia o in Unione Sovietica. Molti avevano combattuto nella Guerra di Spagna, negli anni ’30, nelle Brigate internazionali organizzate dall’Internazionale Comunista, e lì avevano combattuto i fascisti (intervenuti al fianco di Franco contro la Repubblica Spagnola) con le armi in pugno per la prima volta. Sono questi uomini e donne che, nel ’43, organizzano la Resistenza e iniziano a tessere quel legame fondamentale con le masse, costruendo l’ampio consenso popolare attorno a quella lotta. È da loro che le nuove generazioni di combattenti imparano a sviluppare una propria coscienza politica, a comprendere la natura del fascismo, che per 20 anni era stato la dittatura feroce dei grandi industriali, dei proprietari terrieri e dei capitalisti italiani.
Questa parte di storia oggi viene del tutto rimossa e viene considerata scomoda, perché rende palese il tradimento di quegli ideali, così come viene rimossa la storia di decine di migliaia di partigiani che scelsero di tornare sui monti. I partigiani furono la componente più combattiva del vecchio PCI, quando non ne uscirono in polemica per aderire a formazioni che nascevano alla sua sinistra. Avevano combattuto credendo nel socialismo, ma si ritrovarono sotto gli occhi un’Italia che amnistiava i fascisti mentre perseguitava i partigiani, un’Italia in cui i padroni si riprendevano le fabbriche che erano stati gli operai a difendere coi fucili in pugno dai nazisti che volevano trasferirle in Germania, l’Italia che si schierava al fianco degli USA, che entrava nella NATO, che dava vita al mercato comune europeo antenato della UE.
Il risultato è che nelle scuole, paradossalmente, della Resistenza si parla molto poco, meno di quanto si creda. Se ne racconta una versione sbiadita, che invita a fare l’opposto dei partigiani: non lottare per cambiare l’ingiustizia che si ha ogni giorno sotto gli occhi, ma restare passivi accettando l’esistente.
I giovani possono ancora appassionarsi alla Resistenza partigiana. A quella vera, però. Quella che fu la storia di decine di migliaia di giovani delle classi popolari, figli di lavoratori e contadini, che scelsero di lottare per cambiare la loro condizione, per rompere non solo col fascismo, ma con il sistema che lo aveva generato e se ne era servito per 20 anni. La Resistenza partigiana del nostro Paese non appartiene ai padroni, per quanto possano cercare di servirsene per i loro scopi. Appartiene al movimento operaio, agli sfruttati, ai figli del popolo. A noi il compito di rialzare le bandiere dei partigiani nella lotta per cambiare il futuro che il capitalismo ci ha messo davanti.
«Dietro alla bandiera della Resistenza marciano oggi nuove possenti forze, giovani generazioni che aspirano a conquistare il loro avvenire. Portiamo avanti, portiamo al successo le bandiere della Resistenza.» (Pietro Secchia, Commissario Politico delle Brigate Garibaldi).