di Giulia Picaro
Dopo numerosi rinvii e tentennamenti, il 20 maggio si apriranno finalmente le danze dell’esame di abilitazione per la professione di avvocato 2020, con un ritardo di cinque mesi rispetto all’ordinaria tabella di marcia. La scure della pessima gestione governativa della pandemia si è abbattuta anche su questo settore, con il risultato che circa 26mila praticanti avvocati si sono trovati prima nell’impossibilità di sostenere l’esame di abilitazione a dicembre 2020, e poi in una prolungata condizione di incertezza circa modalità e tempi di svolgimento dello stesso.
Tale situazione si somma a un percorso già di per sé complesso e pieno di ostacoli: dopo la laurea in Giurisprudenza, per diventare avvocati è necessario superare un esame che, di regola, si compone di tre prove scritte e una prova orale, alla quale sono ammessi i candidati promossi agli scritti, solitamente a distanza di un anno dalla prima prova e con chances di successo spesso molto scarse[1]. Ma non è finita qui. L’accesso all’esame è a sua volta subordinato allo svolgimento di un periodo obbligatorio di pratica presso uno studio legale (c.d. pratica forense) pari a 18 mesi, la cui funzione sarebbe quella di insegnare al giovane laureato in giurisprudenza il mestiere dell’avvocato. Quello che dovrebbe rappresentare un momento di lavoro e formazione sul campo, fondamentale per la vita lavorativa futura, si traduce nella maggioranza dei casi in un’esperienza molto dura di sfruttamento e vessazioni.
Da un punto di vista tecnico, il praticante dovrebbe rientrare, al pari dell’avvocato libero professionista, nella categoria dei lavoratori autonomi con partita IVA. Nella realtà dei fatti, però, il praticante è assimilabile in tutto e per tutto a un lavoratore subordinato, perché lavora alle dipendenze di un avvocato – denominato, con terminologia parecchio evocativa, “dominus” (dal latino: padrone) –, svolgendo le mansioni che da questo gli vengono assegnate, rispettando un orario di lavoro prestabilito, percependo da questi (forse) una retribuzione, e così via. Del resto, questa assimilazione del praticante al lavoratore dipendente non trova riscontro dal punto di vista formale, perché la stragrande maggioranza dei praticanti lavora in nero e non è assunta con un contratto di lavoro di nessun genere, con tutte le conseguenze del caso dal punto di vista dell’assenza di qualsiasi tipo di tutela previdenziale e infortunistica.
Come se non bastasse, il ruolo del praticante all’interno dello studio legale è spesso quello di un factotum: le mansioni assegnate sono le più disparate, e possono consistere, a seconda delle necessità, nel trascorrere mattinate a girare come trottole per gli uffici giudiziari e postali, nello svolgimento di ricerche, nella preparazione di atti, e perfino nell’esecuzione di compiti di mera segreteria o addirittura di favori personali al dominus. Tutto questo viene generalmente svolto nell’arco di una giornata lavorativa di cui si conosce l’orario di inizio ma non di fine, e che può durare anche 12 ore.
Sul piano della retribuzione, esiste un dovere deontologico di riconoscere al praticante, “fermo l’obbligo del rimborso delle spese”, un “compenso adeguato” (art. 40 del Codice deontologico forense), ma la legge non fissa un minimo garantito, per cui gli abusi da questo punto di vista sono sempre dietro l’angolo: si passa da situazioni in cui la retribuzione si aggira attorno alle pochissime centinaia di euro al mese, fino a casi in cui il lavoro viene svolto completamente a titolo gratuito. Fanno eccezione alla regola i grandi studi d’affari, dotati di un’organizzazione interna paragonabile a quella di un’azienda, dove però a compensi anche superiori ai mille euro al mese corrispondono ritmi di lavoro disumani, che di frequente non tengono conto dell’alternarsi tra giorno e notte, né dei fine settimana, né dei giorni di festa.
Per dare uno spaccato più concreto di quanto finora descritto, di seguito la testimonianza diretta di alcuni giovani praticanti che hanno accettato di parlare con noi (i nomi sono di fantasia, ndr):
Anna: Nel corso dei 18 mesi ho cambiato tre studi legali. Dal primo me ne sono andata perché a fine mese si dimenticavano sistematicamente di darmi i miei miseri 500 euro, accumulando ritardi anche di dieci giorni e costringendomi ogni volta a dover elemosinare i pagamenti. Anche dal secondo sono scappata, dopo essere stata aggredita senza motivo dal dominus che era nervoso per un’udienza andata male, con urla e insulti del tipo “devi stare zitta, perché tu sei una praticante e io un avvocato! Zitta, zitta, zitta!”. Peraltro, per questo episodio non ho potuto neanche fare un esposto all’Ordine degli Avvocati, per paura di ripercussioni. Infine, mi sono licenziata anche dal terzo studio, perché non sopportavo più di dover lavorare dalle 9 alle 20 per 500 euro al mese, cioè per 2 euro all’ora!
Francesca: Dopo la laurea ho inviato il mio curriculum a una trentina di studi, e devo dire che hanno risposto in tantissimi. Lì per lì mi sono stupita di questo fatto, ma a posteriori ne ho capito il motivo, e cioè che tutti hanno bisogno di uno schiavo. In 18 mesi di pratica, diversamente da quanto mi era stato promesso all’inizio, non ho mai ottenuto un aumento di stipendio, che è limitato a un piccolo rimborso spese a fronte di giornate lavorative spesso di 12/13 ore. Inoltre, parte di questo periodo è venuto a coincidere con l’emergenza covid, in cui io non ho fatto neanche un giorno di smartworking: dopo il primo lockdown di marzo-aprile 2020, sono dovuta tornare subito in studio, dove non venivano rispettate le più banali precauzioni igienico-sanitarie, come indossare la mascherina e farla indossare ai clienti che entravano. In tutto questo il mio capo non si è fatto problemi ad ammettere esplicitamente e a più riprese che non gli interessava nulla di tutelare la mia salute.
Giovanni: Come praticanti viviamo in quel limbo per cui, anche se siamo trattati a tutti gli effetti come lavoratori subordinati, non godiamo di nessuna tutela, perché siamo astrattamente considerati lavoratori autonomi (seppur con un guadagno talmente infimo che ci risulta impossibile aprire la partita IVA). Quando ho provato a chiedere al mio capo un aumento di retribuzione, mi è stato risposto, dalla stessa persona che mi assegna compiti e mi impone un orario molto rigido di lavoro, che come libero professionista io non ho diritto a chiedere un salario. In pratica: io non sono né un lavoratore dipendente, né un lavoratore autonomo, ma per il dominus sono entrambi a seconda della convenienza del momento.
Martina: A 26 anni, da laureata, guadagno 8 euro al giorno per fare quasi esclusivamente recupero dei crediti che l’avvocato ha nei confronti dei suoi clienti. Non sto imparando niente di utile per la mia vita professionale futura e non sto neanche facendo un lavoro che mi garantisca la possibilità di pagarmi un affitto. Tutto questo con la spada di Damocle dell’esame che potrei non passare, e quindi del rischio che questa situazione vada avanti ancora per anni. Sto iniziando a guardarmi attorno e valutando la possibilità di cambiare vita, o addirittura di trasferirmi all’estero, perché tutto questo per me è diventato intollerabile.
Insomma, il quadro è parecchio desolante, e riguarda migliaia di giovani che, una volta imbarcatisi nel percorso professionale forense, non hanno nessuna garanzia di potersi costruire una stabilità né nel presente, né nel futuro. Le retribuzioni da fame impediscono ai praticanti di rendersi autonomi dalla famiglia alla soglia dei trent’anni, con l’inevitabile conseguenza di una selezione di classe all’accesso alla carriera da avvocato. Infatti, mantenere un figlio addirittura oltre l’università può rappresentare un sacrificio insostenibile per una famiglia di lavoratori. Ciò vale ancora di più se si pensa all’indeterminatezza del periodo tra la laurea e il conseguimento del titolo (titolo che, in ogni caso, non garantisce automaticamente un lavoro, ma questa è un’altra storia), che può durare anche diversi anni in caso di bocciatura all’esame.
In tutto questo, la voce dei praticanti fatica a levarsi, a causa della frammentazione estrema del lavoro, di una mancanza assoluta di organizzazione e anche della paura di esporsi ed essere licenziati. Ad oggi, quasi nessun praticante si sognerebbe mai di scioperare, perché non presentarsi in studio senza giustificazione comporta un serio rischio di perdita del posto di lavoro, oltre che di una stigmatizzazione dai risvolti deleteri in un ambiente, come quello forense, in buona parte fondato sul passaparola tra avvocati. Eppure, come si è provato a dimostrare in questo breve articolo, le motivazioni per organizzarsi e rivendicare migliori condizioni di lavoro non mancano affatto.
Quello della pratica forense è uno dei tanti settori in cui si misura la cifra dell’assenza di tutele, della precarietà e dello sfruttamento a cui la nostra generazione è destinata. A noi il compito di alzare la testa per invertire la rotta.
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[1] Nella sessione 2019, per esempio, solo il 35% dei candidati è stato ammesso all’orale, in linea con il trend che si registra ogni anno. Fonte: https://www.ilsole24ore.com/art/abilitazione-avvocati-solo-35percento-all-orale-e-praticanti-annunciano-battaglie-legali-ADjtsVm.