di Pietro Zgaga e Alessandro Daziani, cellula FGC UniPr
Da qualche anno l’Università di Parma ha siglato, fra le prime in Italia, un accordo con la base NATO di Solbiate Olona (VA). Tale accordo prende la forma di un tirocinio presso la struttura in questione, aperto principalmente agli studenti del Dipartimento di Giurisprudenza, Studi Politici e Internazionali, in cui viene assegnato di anno in anno un lavoro di ricerca.
Quest’anno la ricerca è focalizzata su “aree tematiche (sociali, economiche, politiche, sicurezza, etc.) attinenti l’area geografica del Sahel”. In quale modo il Sahel è di interesse militare, politico ed economico per l’Italia?
Facciamo un passo indietro per inquadrare la situazione. Il Sahel, zona geografica comprendente Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad e Sudan, è una vasta zona semidesertica ma ricca di materie prime, nonché geograficamente strategica in quanto connette il Nordafrica all’Africa subsahariana rappresentando quindi un passaggio cruciale dei flussi migratori verso l’Europa. Qui le multinazionali saccheggiano i giacimenti di oro, uranio, cobalto, petrolio, bauxite e altri materiali preziosi (per dare un senso della proporzione, la Francia estrae il 33% dell’uranio necessario al funzionamento delle sue centrali nucleari soltanto in Niger, provocando inoltre gravi carenze idriche in un territorio a rischio desertificazione). Questo meccanismo è possibile perché gli Stati europei e i loro monopoli stipulano accordi coi regimi repressivi di questi Paesi e i loro padronati locali, arricchendo entrambe le parti a dismisura ma affamando la popolazione.
La storia recente ha determinato un’evoluzione dei rapporti in questione. Le c.d. Primavere Arabe, e l’intervento del 2011 con cui la NATO distrusse il governo libico, hanno buttato nuova benzina sul fuoco di territori già instabili. Le armi con cui i ribelli libici sono stati equipaggiati sono tracimate a sud, l’export stesso di armamenti (di cui l’Italia è uno dei primi 10 produttori al mondo) è aumentato del 669% in Mali e dell’83% in Burkina Faso, mentre milizie indipendenti e jihadisti hanno intensificato proporzionalmente le loro attività.
Il disordine crescente, lo sfruttamento, e la povertà estrema in cui versa la stragrande maggioranza della popolazione, ha provocato impressionanti mobilitazioni popolari nell’ultimo anno in Ciad, Niger, Senegal, e Mali. L’esito di queste rivolte è stato quasi sempre lo stesso: i regimi reprimono nel sangue le proteste, tentando di garantire la continuità del proprio potere e gli affari dei monopoli esteri. In Mali, invece, l’esercito ha preso l’iniziativa con un colpo di stato appoggiato da Francia e Cina (il secondo in otto anni), deponendo il presidente in carica Ibrahim Keita; attualmente il Paese è ancora in fase di transizione dal potere militare a quello civile.
Lo scenario si è dunque incredibilmente complicato negli ultimi dieci anni. Se prima la presenza militare ed economica era prevalentemente francese, ora il Paese guidato da Macron rischia di non avere più la forza di mantenere una situazione favorevole. Ed è qui che entrano in gioco Unione Europea e stati membri: la missione militare congiunta “Takuba”, concepita nel 2020, a cui l’Italia partecipa entusiasticamente rappresenta l’intervento dell’UE come garante ed arbitro della spartizione del bottino africano, con approvazione e supporto da parte della NATO. L’intervento militare rappresenta una fondamentale opportunità per i capitalisti italiani di salvaguardare ed incrementare le proprie rendite derivanti dallo sfruttamento di manodopera e risorse a prezzi stracciati, ma non soltanto. Come accennato in precedenza, il Sahel è la cerniera che unisce Africa subsahariana e Nordafrica, aree geografiche in cui l’ENI estrae ben il 66% del suo petrolio. Una “stabilizzazione” del territorio (poco importa se a discapito della sua popolazione) abbatterebbe i costi del business petrolifero lungo tutta la filiera. Vi è anche la questione delle migrazioni, in quanto la presenza militare italiana avrà l’opportunità di bloccare a monte i profughi che scappano da sfruttamento e guerre prima che raggiungano la Libia. Sarebbe quindi sbagliato considerare la partecipazione militare italiana come subordinata agli interessi francesi, nell’errata visione politica che vede l’Italia “supina agli interessi di potenze straniere”, apparendo chiaro come l’imperialismo italiano miri a sfruttare queste condizioni con l’intento di gestire e reprimere i flussi migratori e rafforzare i propri interessi economici.
A proporre questa visione non è la malizia dei comunisti, ma lo stesso Ministro della Difesa Guerini, la cui riconferma al Ministero segna la continuità di intenti tra i governi Conte e Draghi. Egli ha sottolineato l’impegno in ambito NATO a sviluppare una strategia militare basata su “un uso complementare dei mezzi a disposizione del Paese per la stabilità di un’area a cui sono connessi gli obiettivi di sviluppo del Paese” in modo da “promuovere e tutelare gli interessi nazionali”. Vi sarebbe infatti “la necessità di impiegare le risorse della Difesa per sviluppare pienamente l’intero potenziale esprimibile dall’industria di settore, attraverso una rinnovata sinergia, in grado di armonizzare al meglio le esigenze delle Forze armate con le capacità e gli obiettivi di sviluppo strategico del comparto industriale, e dando priorità ai programmi di investimento con maggiori effetti positivi sulla nostra sovranità tecnologica e sulla nostra economia”. Nel momento in cui l’addestramento della polizia antisommossa del Niger, una delle missioni del contingente italiano, è considerata un mezzo per tutelare gli “interessi nazionali” – i.e. dei padroni italiani – non si può continuare a credere alla favola delle “missioni di pace”.
Il punto dovrebbe risultare ormai chiaro. Gli aspetti militari vengono accompagnati da un lavoro politico; accordi, trattati, influenze, transizioni di potere mediante le quali gli stati membri UE predispongono in Sahel un terreno che garantisca continuità al depredamento di quei territori. Ed è esattamente in quest’ottica che si collocano le partnership tra la NATO e gli atenei italiani, nel Dipartimento di Giurisprudenza, Studi Politici ed Internazionali di Parma così come a Bologna, Genova, Pisa, Catania…
Lottare contro l’università di classe significa anche opporsi ad ogni forma di collaborazione alle missioni imperialiste da parte degli atenei. Progetti di questo tipo esistono in decine di università nel nostro paese. Battersi per impedire queste forme di complicità all’oppressione dei popoli è una priorità politica per tutti gli studenti che vogliono un futuro di pace.