I fatti di questi giorni hanno nuovamente spostato parte dell’attenzione pubblica sul tema della guerra, dell’imperialismo e ovviamente sulla situazione israelo-palestinese. Tutti fenomeni che, in realtà, sarebbero sempre attuali, ma che tornano alla ribalta solamente quando la violenza più efferata esce allo scoperto e ci è impossibile guardare altrove.
È il caso, in particolare, dell’industria bellica. Un mercato globale immenso, che produce miliardi e miliardi di profitti sulla pelle dei popoli, nell’indifferenza quotidiana. Ma è proprio in questi giorni, appunto, che si torna a parlarne. È di venerdì (14/05) il comunicato di Weapon Watch – un osservatorio sul traffico di armi nei porti europei e mediterranei, con base a Genova – che segnala il passaggio in questi giorni nei porti di Genova, Livorno e Napoli della Asiatic Island, una portacontainer carica di materiale bellico e diretta verso il porto israeliano di Ashdod.
Il comunicato ci tiene a precisare che “nel porto di Genova operazioni di imbarco di merci esplosive sono frequenti e con tutta probabilità riguardano munizionamento pesante […]. Movimenti analoghi sono già stati registrati in più occasioni proprio in relazione alla «Asiatic Island», che passa regolarmente dal porto genovese ogni 2-3 settimane”. Operazioni di routine quindi. Ma che in questi giorni, visto il ri-esplodere delle violenze ai danni del popolo palestinese, tornano ad assumere un significato ancora più grave.
Rapida è stata la risposta dei sindacati di base.
A Livorno – prima che la Asiatic Island arrivasse, il 15/05, nel porto – la sezione locale di USB ha dichiarato in un comunicato:
“Il porto di Livorno non sia complice del massacro ai danni della popolazione palestinese! No al transito della nave delle armi nel nostro scalo! […]
Non sappiamo ancora se anche nel nostro porto verranno caricati contenitori di armi ed esplosivi ma sicuramente non sarebbe la prima volta che questo accade. Attraverso i lavoratori portuali iscritti al sindacato stiamo cercando di raccogliere informazioni in tal senso. Proprio nella giornata di ieri abbiamo ricevuto una segnalazione circa la presenza, presso il Molo Italia, di decine di mezzi blindati militari pronti ad essere imbarcati. […]
Abbiamo avviato una campagna di sensibilizzazione con i lavoratori portuali Livornesi affinché il coraggioso esempio che arriva dal Porto di Genova possa essere riproposto anche sul nostro territorio. Il lavoro è importante, specialmente in questi tempi, ma questo non può farci chiudere gli occhi, o peggio ancora farci diventare complici, di massacri continui nei confronti della popolazione civile”.
Anche a Napoli – da cui la Asiatic Island è partita la mattina del 16/05 con direzione Ashdod – i lavoratori portuali iscritti al SI Cobas hanno espresso la loro contrarietà:
“I lavoratori del porto di Napoli aderenti al SI Cobas si uniscono nella lotta contro lo smistamento di armi che attraversano i nostri scali. […] Denunciamo la complicità del Governo italiano e della quasi totalità delle forze parlamentari con l’aggressione israeliana, e il silenzio-assenso dello stato al transito di armi da guerra israeliane sui nostri porti. Le nostre mani non si sporcheranno di sangue per le vostre guerre”.
È da Genova che, negli ultimi anni, era arrivato appunto il “coraggioso esempio” che veniva citato poco fa, quando i lavoratori del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (CALP), con il supporto di alcuni sindacati di base come USB e SI Cobas, hanno più volte impedito il carico di materiale bellico diretto verso l’Arabia Saudita – tutt’oggi impegnata nel conflitto in Yemen.
Proprio in questi giorni si era anche tornato a discutere delle misure repressive in atto contro alcuni lavoratori del CALP, sotto indagine con pesanti accuse per il semplice fatto di avere protestato contro il traffico d’armi verso paesi attualmente impegnati in guerre brutali. Eppure, nonostante la dura repressione, queste azioni devono continuare e rimangono significative ed esemplari per diversi motivi.
Ci insegnano il valore dell’internazionalismo proletario e ci ricordano che la lotta contro la guerra e l’imperialismo sono lotte concrete, che devono partire proprio dai nostri paesi. Le azioni di massa, come le grandi piazze di questi giorni in solidarietà al popolo palestinese, sono certo importanti perché smuovono le coscienze pubbliche e dimostrano che un’ampia fetta della popolazione italiana non si è fatta ammaliare dalla narrazione a reti unificate che vuole seppellire sotto la sabbia i crimini sionisti. Importanti quindi, ma non sufficienti. “Guerra alla guerra”, uno slogan vecchio di un secolo ma quanto mai attuale. Pretendere di sapere cosa si produce e per quali scopi, chiedere conto ai nostri governanti dei traffici di morte (spesso al limite della legalità), sabotare e impedire la produzione e il commercio di materiale bellico che sarebbe chiaramente utilizzato contro la popolazione civile e le guerre imperialiste. Insomma, rivendicare il controllo operaio e popolare sulla produzione – partendo e prendendo esempio dalle concrete azioni che i lavoratori portuali combattivi hanno messo in campo in questi anni – affinché questa risponda davvero agli interessi della collettività e dei popoli del mondo.
Ci dimostrano, ancora una volta, la centralità della classe operaia. Perché senza di essa non si muove un container, non si avvita un bullone. E quando essa è cosciente e organizzata è in grado di mettere i bastoni tra le ruote persino ai piani imperialisti delle grandi potenze.
Ci ricordano, infine, che solo con l’organizzazione è possibile incidere sulla realtà concreta che ci circonda, resistere alla repressione che inevitabilmente ci colpisce quando la lotta si fa più dura, gettare le basi per un futuro senza guerre e senza sfruttamento.