di Laila A., Ivan Boine e Raffaele Timperi
Le espulsioni dei residenti palestinesi da Sheikh Jarrah (Gerusalemme Est) e l’ennesimo bombardamento su Gaza hanno aggravato ulteriormente la situazione in una Palestina già provata delle condizioni di occupazione degli ultimi anni e da un anno di crisi pandemica sotto embargo sanitario israeliano. La questione palestinese è tornata, così, all’ordine del giorno in tutto il mondo, mobilitando anche in Italia migliaia di persone, nonostante l’aperta campagna di falsificazione mediatica condotta dalla quasi completa totalità delle testate giornalistiche. Questo articolo vuole sia presentare una narrazione più generale di quanto successo, sia contribuire attivamente al dibattito che, anche in Italia, si è acceso tra i tantissimi che sostengono la lotta del popolo palestinese contro l’occupazione israeliana.
Sheikh Jarrah e Gaza: cosa è successo e perché
Sheikh Jarrah è un quartiere di Gerusalemme Est, che ospita più di 3000 palestinesi. Nel 1956 l’area, come la Cisgiordania, era sotto il controllo giordano. Quell’anno il governo giordano riesce a stipulare un accordo con l’UNWRA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione lavorativa rivolta ai profughi palestinesi, in base al quale 28 famiglie, espulse da alcune città occupate, avrebbero potuto risiedere a Gerusalemme nella zona di Sheikh Jarrah. Nel 1967 Israele occupa però anche Gerusalemme Est e il mandato giordano crolla.
Da allora l’obiettivo israeliano a Gerusalemme è quello di espandere i propri insediamenti e il proprio controllo, fino a renderlo capillare. Le demolizioni di case palestinesi (170 solo nel 2020), le espulsioni e le migliaia di nuovi insediamenti rispondono precisamente a questo interesse.
È stato proprio il quartiere di Sheikh Jarrah uno degli epicentri del conflitto a cui abbiamo assistito nelle scorse settimane, dove da anni è in corso una disputa legale: alcuni gruppi nazionalisti israeliani sostengono (dal 1972) che, prima del 1948, la zona fosse di proprietà ebraica; a questa accusa i palestinesi rispondono che quella zona è stata destinata alle loro famiglie proprio come conseguenza dell’occupazione e della Nakba e che loro stessi non hanno diritto a reclamare le terre occupate da Israele.
A ottobre la Corte Distrettuale di Gerusalemme aveva predisposto per il 2 maggio l’espulsione di sei famiglie palestinesi residenti nel quartiere. Le famiglie hanno reagito, protestando sia per vie legali sia con sit-in e ripetute denunce sui social. Le proteste si sono intensificate con l’avvicinarsi dell’espulsione forzata e hanno raccolto sempre più solidarietà da parte dei palestinesi.
Il 7 maggio le forze dell’esercito israeliano hanno aggredito i manifestanti nei pressi della moschea di Al-Aqsa, lanciando granate stordenti verso i fedeli all’interno della moschea e ferendo con proiettili di gomma almeno 200 persone. Il tutto con l’Eid Mubarak, il momento più sacro per i musulmani, e la ricorrenza della Nakba (15 maggio), che ricorda l’esodo avvenuto nel 1948 di 700.000 palestinesi, alle porte.
Il 9 maggio Israele attacca i manifestanti nel quartiere di Sheikh Jarrah, dopo che alcuni coloni avevano aggredito la famiglia El-Kurd, che stava tentando di resistere all’espulsione. Mentre le proteste proseguono giorno e notte, nascono manifestazioni di solidarietà anche a Haifa, Nazareth e Ramallah. Lo stesso giorno almeno 300 palestinesi e 17 militari israeliani risultano feriti.
In questo quadro si inserisce la reazione di Gaza. Le forze di resistenza lì radicate annunciano l’intenzione di rispondere col fuoco alla violenza israeliana. Il 10 maggio Hamas dà un ultimatum alle forze israeliane: abbandonare al-Aqsa e fermare le violenze contro i palestinesi di Gerusalemme est. Allo scadere dell’ultimatum circa 150 razzi vengono lanciati da Gaza verso Israele. Tra lunedì e martedì l’esercito israeliano bombarda Gaza: ha inizio l’operazione ‘Guardiano delle mura’.
La mattina dell’11 maggio, quando le vittime palestinesi sono già 26, Netanyahu dichiara: «la frequenza degli attacchi verrà intensificata».
Hamas non è l’unica ad opporsi al fuoco israeliano: nella striscia di Gaza si attivano anche il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa e la Jihad islamica palestinese.
L’11 maggio continuano i bombardamenti a tappeto. Mentre le autorità israeliane dichiarano di colpire obiettivi mirati e legati a Hamas, a Gaza City viene raso al suolo un complesso abitativo di 13 piani, la torre Hanadi. Il giorno seguente, secondo l’UNWRA, si succedono attacchi a torri e complessi abitativi. Il 12 maggio il numero dei palestinesi uccisi è di 56, di cui 14 bambini, e un solo responsabile dell’ala militare di Hamas. Secondo le stime delle Nazioni Unite, nei primi 4 giorni di bombardamenti, circa 10.000 palestinesi hanno abbandonato le proprie abitazioni, cercando rifugio nelle strutture dell’UNWRA. A questo punto 7 civili israeliani risultano uccisi.
La reazione dei palestinesi in Cisgiordania non tarda ad arrivare: proteste si scatenano in diverse città occupate, dove le forze israeliane uccidono undici palestinesi, ferendone a centinaia. Nel frattempo, vere e proprie ronde armate vengono organizzate dai civili israeliani nelle città di Acri, Haifa e Giaffa, con l’obiettivo di linciare i palestinesi.
La maggior parte delle informazioni giornalistiche e televisive che da Gaza riescono a varcare i confini della Striscia provengono dalla torre al-Jaala, che ospita gli uffici di Al Jazeera, Associated Press e altri media arabi. O meglio, ospitava: il 15 maggio la torre viene bombardata da 4 missili israeliani e crolla al suolo. Le forze dell’IDF – le forze armate israeliane – ritengono di aver dato sufficiente preavviso per evacuare e sottolineano che il bombardamento mirava ad alcuni ufficiali di Hamas che usavano l’edificio come base. Di tutto ciò le autorità israeliane non hanno mai fornito alcuna prova. Continuano parallelamente anche i bombardamenti su altre torri residenziali, come la torre Al-Jawhara, il cui crollo ha provocato notevoli danni anche alle strutture circostanti.
I bombardamenti proseguono nei giorni successivi e il numero delle vittime civili sale. Il 17 maggio il direttore dell’UNWR, Matthias Schmale, dichiara che Israele sta impedendo la creazione di corridoi umanitari. Sostiene anche che le bombe israeliane stiano cadendo molto vicino alle loro sedi: «abbiamo più di 41.000 persone [sfollate] in 50 scuole, sarebbe quindi di grande preoccupazione se una di queste installazioni venisse direttamente colpita» dichiara ad Al Jazeera. Il giorno seguente verrà colpito anche l’ospedale che ospitava l’unico laboratorio Covid di Gaza, già piegata dalla pandemia e dalle scarse risorse sanitarie disponili.
Il tentativo israeliano di dipingere questo massacro come un conflitto tra l’IDF e Hamas fallisce ancora una volta quando, fuori dalla Striscia, i palestinesi rispondono agli avvenimenti di Gaza con uno sciopero di massa, che coinvolge le città della Cisgiordania e la popolazione palestinese residente in Israele, arrivando fino ai campi profughi in Libano.
Dopo 11 giorni di costanti bombardamenti sulla striscia di Gaza viene mediato dall’Egitto un cessate il fuoco, che entra in vigore dalle due di notte del 21 maggio. Questo gesto viene interpretato come una vittoria da Netanyahu, che sostiene di aver ‘colpito 200 combattenti’, ma anche dai leader di Hamas, che ritengono di aver imposto le proprie condizioni nell’accordo. Le strade di Gaza e delle città dei territori occupati sono inondate da giovani e famiglie in festa.
Il giorno seguente, però, si contano i danni che droni e missili hanno causato: 258 edifici distrutti, 1042 strutture commerciali e residenziali, 53 scuole, e danni estesi alle tubature, con migliaia di persone senza più accesso all’acqua. Gli sfollati secondo le Nazioni Unite sono centomila, e il Ministero della salute di Gaza conta 248 morti palestinesi, tra cui 66 bambini. I morti israeliani causati dal lancio dei razzi sono 12, inclusi tre lavoratori stranieri. La retorica del conflitto ad armi pari non regge di fronte all’evidenza: Israele ha subito dei danni, Gaza è rasa al suolo.
La tregua tuttora in vigore rappresenta un ritorno alla normalità per i palestinesi. Una normalità fatta di arresti di massa, soprusi e intimidazioni. Il tutto ha un preciso fine politico: colpire i promotori dello sciopero, spezzare la resistenza dei palestinesi residenti in Israele, fare piazza pulita degli elementi più coscienti e combattivi delle classi popolari palestinesi.
Queste operazioni, che hanno preso piede negli ultimi giorni, non stupiscono alla luce dello straordinario sciopero del 18 maggio, sostenuto da enormi manifestazioni popolari. Un evento che i media occidentali hanno a malapena citato, ma che ha un’importanza storica senza paragoni per l’evoluzione della questione palestinese nel XXI secolo.
Lo sciopero generale del 18 maggio
Quello del 18 maggio è uno degli scioperi più partecipati della storia palestinese. Negozi, fabbriche, attività produttive di vario tipo e uffici sono rimasti chiusi, o hanno visto la loro attività notevolmente ridotta. Si tratta di uno sciopero generale contro gli sgomberi a Sheikh Jarrah, i bombardamenti su Gaza, le provocazioni israeliane nella Spianata delle Moschee, l’insediamento continuo di nuovi coloni nei territori palestinesi e la violazione sistematica dei diritti civili, politici e sociali dei palestinesi residenti in Israele.
Le prime interruzioni di lavoro sono avvenute a Gerusalemme Est e nei territori del ‘48[1] attorno alle 2 del mattino. In Israele lo sciopero è stato promosso da collettivi e organizzazioni giovanili, in un contesto di estrema difficoltà di azione sindacale e di grande frammentazione. Sebbene organizzazioni sindacali come la MAAN Workers Association sostengano che la classe operaia palestinese in Israele non abbia avuto un ruolo cruciale nella mobilitazione – a causa della legislazione antioperaia e antisindacale di Israele – è indubbio il successo dello sciopero.
Migliaia di persone sono scese in piazza in supporto alle agitazioni sindacali. Ad Haifa, nonostante la reazione della polizia, i cortei sono continuati, come anche i caroselli di automobili e veicoli vari. Cartelli con scritto «Save Sheikh Jarrah» hanno inondato le strade di Nazareth, mentre bandiere palestinesi venivano sventolante nelle manifestazioni di Giaffa – nell’area urbana della capitale Tel Aviv – Akka/Acri, Kafr al-Kinna, Omm al-Fahm, Hebron/Al-Khalil, Lod/Al-Lidd e Sekhnin, solo per citare le piazze principali.
Anche nei territori teoricamente sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese lo sciopero è stato un successo, con manifestazioni in tutta la Cisgiordania, specialmente a Gerusalemme Est e Ramallah, trovando l’appoggio della resistente striscia di Gaza. Bisogna precisare che in Cisgiordania le manifestazioni si rivolgevano anche contro la gestione dell’ANP della situazione attuale. In più, si è assistito a scontri tra forze dell’ordine controllate dall’ANP e manifestanti, segnale di una perdita di consensi del presidente Mahmud Abbas e del suo partito, il socialdemocratico Fatah.
Lo sciopero ha ricevuto il sostegno del Maki, il Partito Comunista d’Israele, sceso in piazza nella capitale israeliana insieme alle forze della coalizione Hadash, di cui fa parte, lavoratori e movimenti per la pace. «Ci sono due popoli che vivono qui ed entrambi meritano il diritto all’autodeterminazione» ha affermato in piazza Ayman Odeh, leader di Hadash, «Dobbiamo formare un ampio campo democratico attorno ai nostri principi comuni, con un chiaro appello per la fine dell’occupazione, per l’uguaglianza, la democrazia e la giustizia sociale per tutti i cittadini».
L’appoggio allo sciopero è arrivato anche dal Partito del Popolo Palestinese, che ha espresso soddisfazione per la grande partecipazione. «Il Partito del Popolo» si legge in un comunicato del PPP «sottolinea che l’adesione allo sciopero in tutta la Palestina storica è un’espressione dell’unità del popolo palestinese», un’unità creata nella «lotta contro l’occupazione e la continua aggressione del nostro popolo».
Come scritto nel comunicato del PPP, lo sciopero ha ricevuto adesioni in tutta la “Palestina storica”, trovando persino il protagonismo dei palestinesi residenti nei paesi confinanti. Ne sono esempio le manifestazioni, represse dalle autorità, in Giordania, nei pressi della cosiddetta “Linea Verde”. Qui la polizia giordana ha impedito ai giordano-palestinesi di varcare il confine per unirsi alle manifestazioni nel West Bank. Altro esempio rilevante è l’adesione dei profughi palestinesi in Libano. Nel campo di Ain Ahlewa (Libano meridionale) c’è stata l’adesione totale allo sciopero indetto dalla Commissione Unitaria del Lavoro, con la chiusura dei negozi e delle scuole organizzate dall’UNHCR. Gli scioperanti e la popolazione del campo hanno poi aderito alla manifestazione organizzata nella capitale libanese Beirut. Queste manifestazioni riaffermano il “diritto al ritorno” per quelle persone cacciate dalle loro case a colpi di espropri e di insediamenti colonici, frutto delle politiche espansioniste d’Israele
Una mobilitazione con un così grande impatto ha pochi precedenti nella storia palestinese, risalenti per lo più alla Prima Intifada (1987), o addirittura allo sciopero generale del 1936 – durato ben 170 giorni – contro l’insediamento di coloni sionisti promosso dalle autorità britanniche. Al di là dei paragoni, la portata dell’evento dimostra l’importanza delle organizzazioni popolari e della classe lavoratrice nella lotta contro l’imperialismo israeliano.
Non solo, lo sciopero e le mobilitazioni popolari hanno ricevuto diverse manifestazioni di solidarietà dall’estero. La Federazione Sindacale Mondiale (FSM-WFTU) ha organizzato, in contemporanea allo sciopero, un’iniziativa virtuale in cui 150 partecipanti da 55 paesi del mondo hanno portato solidarietà alla lotta palestinese. Inoltre, la WFTU ha organizzato – insieme all’Unione Generale delle Donne Palestinesi (GUPW) e alla Conferenza Internazionale dei Sindacati Arabi (ICATU) – l’International Campaign in Solidarity and Relief of the Palestinian People, indirizzata a raccogliere medicinali, dispositivi medico-sanitari e materiale scolastico, quest’ultimo diretto ai bambini di Gaza.
Importanti manifestazioni di solidarietà sono arrivate dall’Italia, dove i lavori portuali di Livorno, Napoli e Ravenna hanno espresso fermamente la loro contrarietà al passaggio di carichi di armi diretti in Israele. Ammirevole è la concretezza della solidarietà internazionalista di alcuni sindacati italiani: Unione Sindacale di Base a Livorno, Si Cobas a Napoli, settori combattivi dei confederali a Ravenna. Inoltre, il 22 maggio, diverse sigle sindacali palestinesi hanno emesso un appello al movimento sindacale mondiale – a cui per ora in Italia ha aderito il Si Cobas – all’azione concreta contro l’occupazione e il massacro che Israele sta perpetrando ai danni del popolo palestinese.
La repressione attualmente in corso testimonia la riuscita dello sciopero e l’importanza delle manifestazioni popolari in suo sostegno. Il “cessate il fuoco”, tuttora in vigore, è un’occasione per la polizia e per l’esercito israeliano per portare avanti un’ondata di arresti ai danni dei protagonisti delle mobilitazioni popolari nei territori del ’48. Il primo obiettivo sono proprio 500 giovani residenti in quelle aree, un’operazione giustificata dietro la parola d’ordine “preservare l’ordine e la legge”.
La gestione mediatica a favore di Israele
Aspetto interessante è il modo in cui i principali media italiani hanno raccontato l’attuale escalation in Palestina. Grandi quotidiani, giornali e siti che si dichiarano indipendenti, emittenti private, RAI e servizio pubblico: tutti uniti nel sostenere che in Palestina è in atto una «guerra tra Israele e Hamas». Questa retorica è da rigettare completamente, perché non fa altro che sostenere anni e anni di propaganda sionista.
Il primo termine citato è «guerra», parola che richiama subito un conflitto armato combattuto tra due soggetti di forza simile. I fatti di questi giorni non sono in alcun modo inquadrabili in questa direzione: le forze armate israeliane, per dotazioni tecnologiche e per tattiche militari, sono fra le più avanguardia al mondo. Non si può dire lo stesso per le forze palestinesi. La ricostruzione dei fatti delle ultime settimane, il bilancio delle vittime e la situazione storica della Palestina portano a una conclusione: non c’è alcuna guerra in atto.
«Israele contro Hamas» è la formula sintetica di questa narrazione surreale: l’unico Stato democratico del Medio Oriente – con elezioni periodiche, un dichiarato pluralismo politico, un sistema elettorale proporzionale – contro una formazione fondamentalista sunnita come Hamas, ramo palestinese dei Fratelli Musulmani. Ed ecco che la favola è servita.
Per quanto riguarda la democraticità di Israele, è superfluo nel contesto di questo articolo analizzare a fondo la stortura di queste affermazioni. Il regime di apartheid israeliano è sotto gli occhi di tutti: un paese dove persino l’uguaglianza formale di fronte alla legge non è garantita a tutti gli aventi cittadinanza, dove l’agibilità per i governi più reazionari di praticare politiche di pulizia etnica è nella sostanza dichiarata ed evidente a tutti.
Da parte palestinese, invece, l’egemonia di Hamas è in una certa misura una costruzione mediatica occidentale che non corrisponde meccanicamente alla realtà dei fatti. Stesso discorso vale per l’accoppiata Fatah-Hamas per come presentata dai mesi secondo la schematizzazione ricorrente sarebbero rigidamente radicate rispettivamente in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, come frutto di un radicamento profondo ed esclusivo nelle masse popolari delle rispettive zone. Fissiamo subito un punto: questa cristallizzazione di Hamas e di Fatah si basa sui risultati elettorali del 2005 (elezioni presidenziali dell’ANP, vincitore Mahmud Abbas di Fatah) e del 2006 (elezioni legislative, vittoria di Hamas con oltre il 44% dei voti), ben quindici anni fa.
Da una parte, Hamas non ha il primato assoluto in campo militare, tanto che le decisioni sulla resistenza nella striscia di Gaza vengono prese collegialmente da un consiglio militare. Dall’altra, il Fatah è in una fase di crisi organizzativa, impegnata a mantenere in vita la natura degli Accordi di Oslo, e quindi internamente il monopolio politico dell’ANP, ed è in evidente difficoltà nella capacità di elaborare e praticare concretamente una strategia di medio-lungo periodo di opposizione all’occupazione israeliana. Purtroppo, tra i fatti delle ultime settimane, non possiamo non registrare l’intenzione dell’ANP di rispondere con la forza agli scioperi, che non riesce a controllare, e la disponibilità ad accettare l’appoggio dell’amministrazione Biden per la pacificazione con Israele.
Dal 2005-2006 la situazione si è ovviamente evoluta: lo sciopero generale, il sostegno popolare alla resistenza contro l’occupazione israeliana, sono il risultato dello sforzo di nuovi collettivi giovanili, comitati popolari, forze politiche e sindacali di classe, e palestinesi residenti nei paesi limitrofi, come Libano e Giordania.
Quella di ridurre le forze palestinesi ad Hamas è un’operazione mediatica che ha il chiaro intento di oscurare l’impegno di migliaia di esponenti della classe lavoratrice e della gioventù di Palestina. Condurre quest’operazione mediatica significa sostenere quanto la classe politica israeliana, specialmente gli ambienti reazionari e religiosi della destra nazionalista, afferma da tempo: chi lotta contra Israele appartiene ad Hamas e quindi è un terrorista islamista radicale che va soppresso con tutte le forze necessarie. Significa, sul piano concreto, sostenere attivamente l’imperialismo israeliano.
Una riflessione politica sulla questione palestinese
La causa principale delle debolezze e delle difficoltà delle forze palestinesi negli ultimi decenni è la crisi politica nella quale è precipitato il sistema istituzionale disegnato dagli Accordi di Oslo. La debolezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, che si dimostra ormai incapace di tracciare una strategia concreta e attuale nella direzione della costruzione di un sistema di governo palestinese – sia pure nei limiti negoziati dagli Accordi di Oslo, dei quali la stessa ANP è il prodotto – è uno dei principali elementi sui quali ragionare per poter superare parte delle attuali difficoltà nel campo palestinese.
Questo non vuol dire che si debba necessariamente condannare una parte delle organizzazioni politiche palestinesi per “collaborazionismo” con l’occupante. Rivolgere questa accusa a Fatah sarebbe eccessivo e anche semplicistico. Tuttavia, è chiaro che le contraddizioni di questi anni e, in ultimo, gli eventi dell’ultimo mese hanno posto delle questioni, prima fra tutte la necessità di strategia attuale per uscire dall’impasse degli ultimi anni.
Si sente ormai il peso della mancanza di una prospettiva generale, di una strategia comune delle organizzazioni palestinesi – e delle stesse organizzazioni di classe e progressiste – che sia capace di far avanzare il processo di lotta sia rispetto alla questione nazionale sia per migliorare le condizioni di vita di milioni di palestinesi, schiacciati dall’occupazione e dall’isolamento economico e sociale che ne consegue.
Il successo dello sciopero generale in questo senso è stato un enorme risultato, di cui forse dall’Italia si rischia di sottovalutare l’importanza sul piano materiale e su quello simbolico. In un momento di fragilità dell’unità politica palestinese e di scollamento oggettivo tra ANP e la parte più attiva e combattiva del popolo palestinese, i lavoratori sono scesi in sciopero in tutta la Palestina storica dimostrando concretamente come solo l’unità popolare e il protagonismo dei lavoratori possa essere il fulcro della ricomposizione di una nuova unità politica, della lotta contro l’occupazione e contro le politiche sioniste del governo israeliano.
Sbaglia però chi cerca di addossare tutte la colpa agli Accordi di Oslo e alle responsabilità di alcune organizzazioni palestinesi. Non occorre certo ricordare le responsabilità criminali delle organizzazioni sioniste israeliane, le politiche di colonizzazione accelerate proprio dopo la firma quegli accordi e lo scivolamento della politica israeliana su posizioni sempre più aggressive tradendo, di fatto, la natura degli Accordi di Oslo (1993), che, per quanto criticabile oggi, a 25 anni di distanza, ha probabilmente rappresentato all’epoca – nelle nuove condizioni imposte dalla controrivoluzione in URSS – un punto di partenza per una soluzione diplomatica.
Quello che rimane oggi è la necessità di comprendere come quel punto di caduta sia superato dai fatti degli ultimi 25 anni e che, nonostante la buonafede e la speranza che quegli accordi hanno simboleggiato, essi non rappresentano più un elemento di soluzione. Sono il campo sul quale oggi, con nuovi rapporti di forza, le organizzazioni sioniste costruiscono la propria strategia per indebolire politicamente l’unità del popolo palestinese e la sua capacità di elaborare una strategia attuale sulla base dei processi di lotta e di resistenza che eroicamente in questi ultimi anni si sono comunque spontaneamente sviluppati.
L’idea stessa che il campo delle forze palestinesi e soprattutto, per quanto ci riguarda, della solidarietà alla Palestina si divida sulle posizioni della “soluzione a due Stati” o dello “Stato unico palestinese” lascia il posto all’evidenza che una divisione su questa faglia è superata, come lo sono le condizioni sulle quali queste posizioni sono maturate.
Prima di tutto perché a decenni di distanza continua ad esistere nella realtà un solo Stato, quello di Israele, che rafforza il suo carattere nazionalista mantenendo una condotta espansionista aggressiva – espressione degli interessi della propria borghesia, che necessita terra e manodopera a bassissimo costo – combinata a politiche interne di aperta segregazione razziale, difficilmente compatibili con la nascita e l’esistenza di uno Stato palestinese secondo i confini della risoluzione ONU del ’67, già scavalcati da tempo dalla politica di colonizzazione di Israele.
Pensare di far sparire Israele, o pensare che questo debba avvenire chiedendo a quello Stato un’enorme auto-riforma radicale, rimane un’enunciazione di principi astratti se questa posizione non cammina sulle gambe della lotta delle masse palestinesi. E il punto è esattamente questo: non possiamo pensare che il popolo palestinese possa uscire dalla impasse semplicemente trovando la posizione che in astratto è più accettabile.
Quello che queste ultime settimane hanno dimostrato al mondo è che l’unica prospettiva di lotta passa per il rafforzamento delle organizzazioni popolari palestinesi, dai lavoratori e dagli strati popolari che più di tutti e ovunque nella Palestina storica subiscono le politiche di sfruttamento delle aziende israeliane e di occupazione in Cisgiordania. Lo sciopero generale ha dimostrato l’efficacia e le potenzialità di una lotta unitaria di tutti i lavoratori palestinesi a prescindere dai confini, dai check-point e dai muri che i governi nazionalisti israeliani hanno voluto stabilire.
I lavoratori e le lavoratrici palestinesi, che coraggiosamente sono entrati in sciopero, hanno dimostrato questo: che possono mettersi alla testa di tutto il popolo palestinese per individuare una strategia attuale volta a migliorare le condizioni di vita del popolo palestinese e a ribaltare i rapporti di forza, oggi a tutto vantaggio del nazionalismo israeliano.
L’attività militante di solidarietà verso la lotta del popolo palestinese deve per questo superare le vecchie divisioni e unirsi attorno alle organizzazioni di classe e popolari palestinesi, impegnate oggi nella difficile sfida di uscire dall’impasse politica. Un processo di ricomposizione che dovrà tenere in considerazione due elementi fondamentali. Il primo è rappresentato dalla combattività della nuova generazione di giovani palestinesi, che più di tutte soffre sulla propria pelle il peggioramento delle condizioni di sfruttamento e occupazione da parte israeliana degli ultimi decenni, e che è stata in queste settimane protagonista delle mobilitazioni e degli scioperi; il secondo elemento fondamentale è tenere in considerazione le nuove condizioni politiche generali che hanno avuto un ruolo importante nell’indebolimento degli ultimi anni, senza cadere nell’insidia di considerare unicamente le condizioni soggettive di questo scivolamento progressivo. Se queste ultime settimane hanno dimostrato l’attaccamento popolare in tutto il mondo alla causa palestinese, soprattutto nei paesi arabi, è anche vero che oggi per nessun paese, tranne Cuba, la questione palestinese rappresenta un limite alle proprie relazioni con Israele. L’establishment dei paesi arabi – gli stessi paesi in cui centinaia di migliaia di persone sono scesi in piazza in solidarietà alla lotta del popolo palestinese – da decenni ha normalizzato i propri rapporti con Israele, con il quale coopera e compete sulla base di dinamiche che nulla hanno a che vedere con la causa palestinese.
[1] Per “territori del ‘48”si intendono aree assegnate allo Stato di Palestina dalla risoluzione ONU del 1947 e occupate da Israele nella guerra arabo-israeliana del 1948. Da quell’anno sono governate da Tel Aviv.