* di Gianluca Lang e Lorenzo Vagni
Con il DPCM del 22 aprile, che ratificava le riaperture a partire dal successivo 26 aprile, anche le università hanno avuto il via libera per la riapertura dei propri spazi, parzialmente chiusi nei mesi precedenti. Le deliberazioni del DPCM sono state confermate e ribadite dalla nota 0032650 del 23 aprile del Ministero dell’Università e della Ricerca alle università pubbliche e private, a firma del Ministro Maria Cristina Messa:
«Tutti gli atenei operanti nelle zone gialla e arancione dovranno adottare e applicare […] piani di organizzazione della didattica e delle attività curriculari, la cui attuazione preveda lo svolgimento delle attività prioritariamente in presenza. […] Tutti gli Atenei sono invitati a organizzare le attività in presenza o a distanza in ragione dei contesti di riferimento, dei propri modelli organizzativi, delle peculiarità delle diverse discipline, delle disponibilità delle dotazioni infrastrutturali e della numerosità degli studenti.»
Così gli atenei, su direttiva ministeriale, hanno annunciato il rientro in presenza per lezioni, esami e sedute di laurea dal 27 aprile, senza però implementare alcuna nuova misura rispetto a quelle dello scorso ottobre.
Nei fatti, per molte università la prevenzione dei contagi si sostanzia unicamente nell’alternanza settimanale degli studenti basata sul numero di matricola e gestita da servizi online di prenotazione, il cui malfunzionamento è all’ordine del giorno. Anche in una condizione ideale, ossia in cui ciascuno studente abbia realmente la possibilità di usufruire del proprio turno, si otterrebbero aule piene a causa della pregressa condizione di sovraffollamento dei corsi, generata da anni di tagli su spazi e personale. Appare evidente quanto poco sicuro sia concentrare 150 persone in aule da 300 posti scarsi; per questo sono stati aggiunti limiti massimi di prenotazioni. Questa misura, sempre in un caso ideale, esclude sistematicamente una quota di studenti dalla didattica in presenza, il che dà già l’idea di quanto sia illogica tale misura e di come non tenga conto delle condizioni del sistema universitario italiano. Tuttavia, anziché generare un pericoloso sovraffollamento, il rientro in aula ha visto un numero molto scarso di adesioni da parte degli studenti, cosa prevedibile date la premesse e le scarsissime misure messe in campo.
Va considerato come tra il 27 aprile e la fine dei corsi intercorre meno di un mese, in alcuni casi giusto un paio di settimane, che in presenza alternata equivalgono a pochissime ore di reale presenza in aula. Tutto ciò dopo un anno di lezioni erogate prevalentemente in DaD, con modalità vincolate al susseguirsi di zone rosse e arancioni. Le modalità telematiche hanno reso per la maggior parte degli studenti fuorisede insensato e ancor più dispendioso di prima sostenere un affitto in un’altra città per poi essere costretti a seguire le lezioni da uno schermo. Non dovrebbe sorprendere quindi che tra questi solo in pochi abbiano la possibilità di trasferirsi per le poche ore di lezione rimanenti o per la sola sessione estiva (trasferimento che verrebbe così a costare centinaia di euro).
Il problema economico è ancor più rilevante se guardiamo agli studenti che dovrebbero usufruire del servizio di alloggi pubblici. Infatti in tutto il centro-sud gli enti regionali per il diritto allo studio coprono pochi alloggi rispetto a quelli necessari escludendo ogni anno migliaia di studenti che rientrerebbero nei requisiti di assegnazione. Per fare un esempio, la regione Lazio normalmente soddisfa solo il 20% degli studenti idonei escludendone ogni anno circa 8.000 (che devono farsi carico di un affitto privato nella seconda città più cara d’Italia). Ora, a causa della pandemia, questi posti sono stati quasi dimezzati, cosa comune in molte regioni, escludendo un numero ancora più elevato di studenti delle classi popolari, per cui pagare un affitto e seguire in presenza è una difficoltà oggettiva.
Al problema dei fuorisede, che riguarda quasi la metà degli studenti universitari, si aggiungono altre difficoltà, non ultima la gestione degli atenei sui singoli corsi che, per la DaD prima e per il rientro poi, sono stati gestiti a totale discrezione del docente titolare generando i più vari malfunzionamenti e comportamenti scorretti. Non mancano infatti professori che hanno deciso autonomamente di non svolgere lezioni in presenza, creando un problema per chi avesse scelto di seguire di persona altre lezioni in orari prossimi a quella telematica. Ad esempio avere una mattina quattro ore di lezione, due in presenza e due in video (non registrata) non permette di seguire tutti e due i corsi se non da remoto.
Non ultimo, il pericolo di contrarre il COVID-19, mettendo a rischio anche i propri conviventi. La situazione italiana al 26 aprile contava ancora 8.500 nuovi casi giornalieri (numeri da primo lockdown); questi numeri hanno impiegato un mese per dimezzarsi, e al 26 maggio si registrano poco meno di 4.000 casi al giorno. Insomma, il rischio di contrarre il virus è un fatto concreto, soprattutto per chi usufruisce dei mezzi pubblici o frequenta i luoghi a più alta concentrazione di persone. A questo quadro si somma un piano vaccinale in estremo ritardo, soprattutto nelle fasce più giovani della popolazione e per tutti i soggetti più fragili, che in gran parte attendono ancora la somministrazione del vaccino Pfizer. Soprattutto in alcune regioni, dove la vaccinazione procede con maggiori ritardi, è comune la presenza di persone con fragilità in un gruppo familiare, fatto che nella situazione attuale può comprensibilmente scoraggiare la presenza in aula e gli spostamenti che richiede.
Alle criticità legate all’erogazione dei corsi si aggiungono quelle dell’accessibilità alla sessione estiva: infatti, è stata lasciata piena arbitrarietà ai singoli docenti nella valutazione di quali studenti possano avere il “permesso” di svolgere gli esami da remoto, con l’indicazione generale di preferire lo svolgimento delle prove in presenza e circoscrivere l’accesso a quelle telematiche solo per comprovate necessità legate al COVID-19. La discrezionalità da parte dei docenti può causare anche danni economici ingenti a molti studenti. Su questo, infatti, si replica il problema degli studenti fuorisede, che se costretti a svolgere gli esami in presenza senza un alloggio si troveranno a spendere cifre considerevoli per trasporti e sistemazioni in alberghi/ostelli (un docente potrebbe infatti valutare come non rilevante il problema di uno studente che per sostenere un esame dovrebbe effettuare uno spostamento dal Sud al Nord Italia o viceversa, con relative spese di centinaia e centinaia di euro).
Allo stesso modo rimane il problema degli spazi e del sovraffollamento delle aule che dovranno ospitare, in molti casi, centinaia di studenti (non vaccinati e provenienti da tutto il paese), senza permettere a chi magari abbia dei sintomi di svolgere la prova a distanza e tutelare i propri colleghi di corso senza mandare in fumo la sessione. Sono già stati segnalati professori che sono arrivati a richiedere copia di un tampone positivo per consentire l’accesso alle modalità telematiche, ignorando tutte le altre problematiche e possibili scenari. Senza aver disposto alcuna reale misura di accessibilità e tutela della salute richiedere simili modalità vuol dire non tener conto né del diritto alla salute, né allo studio.
Eppure queste situazioni non vengono affrontate dal Ministero o dagli atenei con serietà, arrivando in alcuni casi a scaricare la responsabilità dell’insuccesso delle lezioni in aula sugli studenti. Un esempio sono le parole di Antonella Polimeni, rettrice della Sapienza, università più grande d’Italia e ubicata nella città più popolosa del paese, con una rete di trasporti pubblici a dir poco inadeguata. Questa ha candidamente dichiarato che le scarse presenze in aula sarebbero dovute alla pigrizia della componente studentesca. Insomma le criticità riscontrate in questo anno non sarebbero sostanziali, sono gli studenti ad avere il culo pesante… Questo la dice lunga sulla volontà di affrontare concretamente i problemi che riguardano gli spazi, il personale docente e quello amministrativo, i servizi informatici, la standardizzazione dei corsi, il numero di alloggi pubblici e il funzionamento dei trasporti.
Sul rientro in sicurezza e sulle politiche del governo sull’università si è espresso il Fronte della Gioventù Comunista in una nota:
«In questi mesi gli studenti universitari hanno dovuto fare i conti con l’impossibilità di accedere agli spazi e con una DaD classista. Garantire l’accesso agli appelli in modalità mista a tutti gli studenti, senza lasciare margini di discrezionalità a docenti e strutture didattiche, rappresenta una necessità immediata, a cui far seguire un rientro in sicurezza nel minor tempo possibile. La DaD, infatti, ha penalizzato e continua a penalizzare migliaia di studenti delle classi popolari, che hanno visto compromesso il loro diritto allo studio a causa delle chiusure. Il governo non è intenzionato a intervenire sulle necessità dell’università pubblica, ma vuole agitare la riapertura degli atenei come un manifesto di propaganda. Infatti, predisporre la riapertura degli ultimi settori economici ancora mancanti all’appello senza estendere la cosa all’istruzione avrebbe dichiarato troppo smaccatamente l’indirizzo di questo governo, dal quale non arriverà nessuna misura per un reale rientro in sicurezza. Bisogna conquistare il rientro in sicurezza con la lotta. Il rischio è che a essere colpiti siano la salute e il diritto allo studio di centinaia di migliaia di studenti universitari.»