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Non chiamatele mele marce

di Giovanni Ragusa

52 agenti della polizia penitenziaria sotto custodia cautelare per maltrattamenti e torture sui detenuti, circa 300 presenti in quello che è un vero e proprio teatro degli orrori. L’avvenimento in questione riguarda dei fatti risalenti al 6 aprile 2020, dunque in una delle fasi più buie del primo lockdown, accaduti nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Nel clima di totale incertezza e terrore per il dilagare del virus, in condizioni assolutamente incapaci di assicurare i detenuti del contagio (e pensare che c’è chi vede nella vita del carcerato quella di un pascià a spese dello Stato), e dopo che già alcuni casi di positivi si erano diffusi, scoppia una rivolta il 5 aprile: circa 150 detenuti prendono le chiavi di sei sezioni del carcere per occuparle, chiedendo chiaramente migliori condizioni. Solo dopo diverse ore di trattative, la mattina del 6 aprile si arriva ad una mediazione e la situazione torna calma. Il problema è che, per qualcuno in quella struttura, bisogna ricordare ai rivoltosi chi comanda e “ristabilire l’ordine”. Nel tardo pomeriggio, circa 300 agenti della polizia penitenziaria iniziano quella che il gip di Caserta non ha avuto remore a definire una vera e propria “mattanza”, che grazie ad un servizio di Domani è divenuta di ordine pubblico nell’iniziale silenzio generale di tutti gli altri grandi media nazionali. Le immagini sono di una durezza disarmante, e ci riportano alla mente le peggiori immagini di Bolzaneto: i detenuti sono inizialmente fatti inginocchiare e messi faccia al muro, qualcuno è strattonato dai capelli, altri sono fatti strisciare sotto colpi di manganello. Poi però si vedono, in altre stanze, dei “colleghi” impegnati a picchiare con manganelli, schiaffi, calci e ginocchiate detenuti tenuti fermi da altri poliziotti, oppure altri inermi a terra che sono già sfiniti. Altri ancora sono costretti a salire le scale mentre vengono malmenati ripetutamente. La scena più aberrante, però, è quella del grande corridoio in mezzo al quale i carcerati sono costretti a passare, ricevendo una scarica di colpi di ogni genere da tutti i seviziatori lì presenti, come una sorta di rito del contrappasso tramite cui gli agenti lì presente avrebbero “ripagato” l’onta della rivolta del giorno precedente, per sancire qual è l’ordine che deve regnare lì dentro. Un girone infernale? Purtroppo no, anche se ci va molto vicino. Le parole registrate durante queste scene sono emblematiche: alcuni gridano “Porco, sei un uomo di merda, sono meglio di te!”, ma qualcun altro pronuncia una frase che condensa il succo di quello che è accaduto, ovvero “Adesso lo Stato siamo noi!”..

52 ordinanze di custodia cautelare, come accennato in apertura, adesso sono già state emesse dalla procura di Caserta, ma il punto della discussione non può vertere esclusivamente su come e quando queste bestie siano state punite (o almeno non esclusivamente), ad esempio menzionando il reato di tortura, istituito solo nel 2017. I fatti di Santa Maria Capua Vetere, in primis, devono farci riflettere sullo stato di salute dell’istituzione carceraria italiana, non un luogo di rieducazione e di reinserimento del detenuto nella società, bensì uno spazio punitivo, distruttivo, in cui il carcerato entra da reietto della società e deve uscirne ancora una volta tale, come un marchio indelebile. A ciò, però, deve necessariamente seguire un dibattito più generale su quanto le forze armate italiane, gli “angeli in divisa” che le forze di governo coccolano e proteggono, non siano un’istituzione “sana” al cui interno ci sono giusto “un paio di mele marce”. Ad essere marcia dalla base è tutta la pianta. Come già detto in un precedente articolo, questa retorica non regge più, non può farlo, ed a dimostrarlo sono i fatti: 300 mele marce in un singolo penitenziario? Altre migliaia sparse sui luoghi di lavoro oggetto di sciopero da più di un anno, a manganellare o, se va bene, ad assistere mentre squadracce private ammazzano i lavoratori, proteggendo chi sfrutta e affama? Oppure vogliamo menzionare il recente caso di police brutality avvenuto a Milano contro alcuni ragazzi di colore tranquillamente seduti a fare colazione? Il fatto che i media non parlino di alcuni casi, o facciano di tutto per far cadere presto nel dimenticatoio simili atti di violenza, oggi non può più nascondere la sistematicità con cui determinati eventi pervadono la penisola con sempre maggior frequenza.

Quel “Adesso lo Stato siamo noi” riassume il senso della situazione in questione. Non è un tradimento della divisa, come qualcuno sicuramente dirà, no no, tutto il contrario: i mattatori di Santa Maria Capua Vetere hanno fatto esattamente ciò che lo Stato vuole che facciano, ovvero reprimere, riportare nei ranghi i sussulti più pericolosi che possono accendere il dissenso contro lo Stato stesso, e se poi si tratta di carcerati dal loro punto di vista ci si può anche “lasciare andare”. La necessaria presa di coscienza dev’essere esattamente questa: non c’è uno Stato buono e pio, super partes, neutro rispetto ai conflitti che usa le sue forze dell’ordine per fare andare d’amore e d’accordo le parti sociali, semplicemente perché lo Stato stesso è strumento in mano alle classi dominanti, esprime le loro ambizioni, e tramite il monopolio della forza che lo contraddistingue fa di tutto per tutelarne gli interessi.

In un paese che parla tanto di “memoria condivisa” quando si deve strumentalizzare il passato relativo alla Resistenza, alle foibe o agli anni di piombo, ma che tace scientemente su eventi tragici come quelli del G8 di Genova, non meraviglia che simili atti siano diventati consuetudine, normalizzati e silenziosamente accettati. La pandemia ha scoperto diversi altarini relativi a simili questioni. La realtà dei fatti muove sempre più verso un clima di repressione, di violenza arbitraria, di messa a processo delle lotte, ma questo non dovrà piegare i lavoratori e gli studenti delle classi popolari. Dovrà dare nuova linfa, alimentare in maniera sempre più cosciente le lotte che verranno, e rinvigorire la loro organizzazione per colpire in maniera sempre più compatta, sempre più forte. Non basterà un colpo di spugna a cambiare una simile realtà, bisognerà esserne consapevoli, per ribaltarla definitivamente.

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