di Ivan Boine
Questa mattina è stata comunicata con una e-mail a 450 operai e operaie la chiusura immediata (a partire da lunedì) dello stabilimento GKN di Campi Bisenzio, in provincia di Firenze; azienda produttrice di semiassi per automobili. Attualmente è in corso un’assemblea permanente, come comunica via social Dario Salvetti, RSU in azienda, membro del Collettivo di Fabbrica, dell’assemblea generale nazionale FIOM e del direttivo provinciale FIOM Firenze.
Una notizia non isolata. Il 1° luglio, data fatidica dello sblocco dei licenziamenti per la maggior parte dei comparti, Alessandro Cambarau, lavoratore disabile, è stato lasciato a casa con un messaggio dalla FLSmidth Maag Gear di Segrate (Milano), azienda per cui lavorava da dieci anni. Pochi giorni dopo, 152 lavoratori della Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto (Monza Brianza) sono stati licenziati tramite mail.
Casi non isolati e direttamente inseribili in un contesto di attacco padronale senza precedenti negli ultimi anni. La Confindustria di Carlo Bonomi, esponente dell’ala dura dei padroni italiani, ha fin da subito fatto pressioni sui governi, prima il Conte bis poi quello Draghi, per togliere lo sblocco dei licenziamenti. La conquista è arrivata nel momento in cui CGIL, CISL e UIL sono stati disposti ad accettare tutte le richieste di Confindustria senza battere ciglio, limitandosi al «si impegnano raccomandare l’utilizzo degli ammortizzatori sociali». Il tutto in un clima di repressione e violenza antioperaia e antisindacale nella logistica, con addirittura un sindacalista – Adil Belakhdim, Si Cobas Novara – morto durante uno sciopero perché investito da un crumiro.
La solidarietà al Collettivo di Fabbrica della GKN e a tutti gli operai coinvolti è sicuramente un primo passo ma non può bastare. Alla luce di ciò che accade si deve aprire una riflessione seria sulle prospettive della lotta nei luoghi di lavoro in Italia. Le dirigenze dei confederali, di fronte a una situazione senza precedenti e alla più grande crisi economica dal 1945, hanno scelto la strada della collaborazione di classe, sposando la retorica dell’“unità nazionale”, preferendo sedersi a un tavolo con padroni e governo invece che mobilitare le proprie strutture e proclamare lo sciopero. Le parole di denuncia nei salotti televisivi, dalle pagine dei giornali, da piazze autoreferenziali – come quella del 26 giugno, chiamata avendo ben presente la manifestazione del 19 giugno a Roma – non servono più a nulla. Bisogna parlare chiaro. La funzione che le dirigenze dei confederali, Landini in testa, stanno dando ai propri sindacati è una soltanto: illudere milioni di lavoratori e lavoratrici che ci sia un margine per accordi, per trattative, che la pace sociale sia l’unico orizzonte possibile. In questo modo, l’essersi inchinati alle pretese di Confindustria diventa un «grande risultato per il sindacato», per riportare le parole del leader CGIL. In questa direzione, si divide la classe lavoratrice, tenendo il freno a mano tirato e ponendo un veto a priori a qualsiasi convergenza reale su un piano di lotta.
Quanto è successo a Firenze e in provincia di Monza-Brianza è solo un primo assaggio di quello che i lavoratori affronteranno nei prossimi mesi. Domenica a Bologna si riunirà un’assemblea del sindacalismo conflittuale per discutere della costruzione concreta di uno sciopero generale in base a rivendicazioni condivise, per rispondere con unità e organizzazione all’attacco padronale. Attorno a questa assemblea si devono cementificare tutte le forze politiche di classe, devono aderirvi tutti quei settori sindacali che non vogliono più stare a guardare. Ogni giorno che passa l’unità e l’organizzazione delle lotte operaie diventano una necessità sempre più impellente. Costruire un fronte unico di classe è l’unica soluzione che abbiamo per rispondere. Perché loro colpiscono uniti. Noi, invece, contiamo i licenziati, i feriti durante le cariche, un morto durante uno sciopero, i tagli ai nostri diritti. Non possiamo più aspettare.