di Mattia Greco e Giovanni Ragusa
Una settimana fa i più importanti giornali italiani titolavano: “Napoli choc, studente universitario 25enne si toglie la vita. Esami inventati, aveva mentito alla famiglia.” Non è la prima volta che un episodio drammatico del genere arriva fino alle cronache nazionali. Ci stiamo ormai abituando a tutto questo. Infatti, sono sempre di più i casi analoghi, da Nord a Sud, e basta digitare “universitario suicida” su internet per trovare decine, se non centinaia, di casi e di storie simili..
L’obiettivo di questo articolo non è ricostruire la vita del ragazzo in questione o “scoprire” il perché di questo gesto estremo. Lo sciacallaggio che da tempo ormai media nazionali e locali compiono sulle vite ed i drammi di chi ha deciso di farla finita è già abbastanza meschino e pesante. Bisogna però cercare di andare in profondità, analizzando le cause profonde di questo malessere sempre più diffuso e generalizzato che serpeggia tra i giovani studenti universitari, e che in ultima istanza deve essere cercato nello stesso modello di università che ormai da tempo è stato accettato. Un modello in cui siamo costretti a studiare e che viviamo tutti i giorni, che non va concepito come una mina vagante o una variabile impazzita, frutto di una non meglio definita “incompetenza” di chi ci ha governato e ci governa: questo va detto da subito, l’attuale sistema universitario è il prodotto conseguente del sistema economico e sociale in cui viviamo quotidianamente.
Intorno alle difficoltà degli studenti italiani si sta iniziando a parlare da poco, soprattutto dopo casi emblematici come questi, che riaccendono i riflettori su questo modello formativo, su questo tipo di scuola e di università, dipinte da sempre per quello che in realtà non sono mai state. Prendendo un po’ di dati relativi ai più giovani possiamo constatare come in questa fascia d’età ci sia un malessere sempre più crescente. Uno studio del 2018 affermava che il 10% dei giovani italiani (12-25 anni) era insoddisfatto della sua vita.
Questa condizione è dovuta principalmente al crescente clima di instabilità, precarietà ed incertezza con cui i giovani studenti e lavoratori sono costretti a confrontarsi: gli altissimi numeri relativi alla disoccupazione giovanile, i salari bassissimi, la necessità di emigrare, sono fattori che rendono, per un giovane nel nostro paese, impossibile immaginare un futuro, finendo per rendere tutti gli altri aspetti della propria esistenza altrettanto precari ed incerti, finendo per piombare chi non ha i mezzi adeguati in uno stato di profonda marginalità sociale e psicologica, generando sempre maggiori turbamenti, ansie e depressioni. Ed è proprio la forte depressione che sta dietro alla maggior parte dei suicidi. Al momento non ci sono dati aggiornati agli ultimissimi anni, il che ha suscitato anche diverse polemiche da parte degli esperti del settore, ma questo tasso rimane un dato allarmante se consideriamo che i suicidi sono la seconda causa di morte tra i 10 ed i 25 anni e che, secondo alcuni studi, durante la pandemia il tasso di suicidi è aumentato del 20% proprio tra i giovani.
Ovviamente le statistiche sui suicidi, per quanto possano far riflettere, rappresentano solo una parte minima e più visibile di un problema che va ad interessare una fetta sempre maggiore della popolazione giovanile. Proprio sull’università vediamo infatti come i drammatici casi di suicidio siano accompagnati da una crescita esponenziale tra gli studenti di un forte malessere.
Andando ad analizzare la struttura della nostra università possiamo facilmente notare come i principi su cui l’università-azienda si fonda siano in netta contraddizione con la salute psico-fisica degli studenti. Il principio del merito (il cui uso strumentale ai fini di una legittimazione dello status quo e di una crescente esclusione di classe è sempre più evidente) non solo non è messo in discussione nell’attuale sistema universitario, ma è proprio in base a questo principio che vengono concesse agli studenti le scarne agevolazioni come la borsa di studio, l’alloggio studentesco, la mensa, ecc. che diventano fondamentali per chi alle spalle non ha una famiglia facoltosa.
Il problema è che ormai la norma è rappresentata dal fenomeno degli idonei non beneficiari, vale a dire coloro i quali avrebbero diritto alle agevolazioni ma devono accettare il fatto che non ci siano abbastanza soldi pubblici per coprire immediatamente le loro necessità. In una simile situazione, lo studente che deve confermare la propria idoneità, nell’attesa di ricevere la borsa ed eventualmente l’alloggio, è nei fatti abbandonato alla sua condizione sociale escludente: in questo stato, la logica del merito va a dare conferma dei benefici cui si avrebbe formalmente diritto solo a chi riesce a raggiungere un tot di CFU ogni anno, ma come si può fare ciò avendo un numero risibile di appelli ad ogni sessione, mancando di quei benefici cui pur si avrebbe diritto, e spesso dovendo aggiungere a tutto ciò, di conseguenza, il dover lavorare per mantenersi gli studi?
Non riuscire a rientrare nella categoria dei meritevoli però significa essere costretti a sborsare centinaia di euro ogni mese. Il problema è che se provieni dalle classi popolari queste spese non potrai mai sostenerle facilmente, ed ecco che si arriva al bivio tra studiare e lavorare. La possibilità di avere tempo sufficiente per lo studio, così da recuperare e riconquistare i benefici, ed al contempo riuscire a garantirsi una media dignitosa, diventa pressoché impossibile infatti. Il problema è che questo insieme di input, come si può capire, finiscono per fare cortocircuito tra loro e piegare in maniera sempre più cruda la sanità mentale di quei ragazzi che provengono dalle classi popolari e che quindi non riescono a rientrare in uno standard sociale che si modella sulla vita borghese. Questa corsa al “merito”, che poi nei fatti significa produrre il più possibile, cioè dare il maggior numero di esami nel minor tempo possibile, così come laurearsi in fretta e con una buona media e di conseguenza entrare in competitività con i propri colleghi, rende il percorso universitario non solo antitetico con ciò che concerne formazione e conoscenza critica, ma anche inconciliabile con la salute mentale e psichica. Non raggiungere i crediti necessari oppure non laurearsi in tempo, cioè non raggiungere gli standard richiesti dall’università-azienda, comporta l’esclusione e la marginalizzazione.
La narrazione meritocratica sull’università cerca il più possibile di descrivere come le diverse condizioni di partenza tra gli studenti cessino di esistere una volta varcati i cancelli degli atenei. Una differenza in primis economica, ma anche sociale e culturale tra studenti che viene nascosta, mettendo in risalto esclusivamente le capacità dell’individuo, che viene premiato perché riesce ad eccellere. Tutto il resto degli studenti invece, in gran parte proveniente dalle classi popolari, viene additato come “vagabondo”, “pigro”, “fannullone”, “inadatto”. Ed è proprio il sentirsi “inadatti” a questo sistema, insieme alla scarsa valutazione di sé e delle proprie capacità, così come la paura di fallire, che provoca nella maggior parte degli studenti e delle studentesse stress, debolezza e tristezza, nei casi meno gravi, ma si può arrivare tranquillamente a stati di ansia generalizzata, attacchi di panico, fobie e disturbi mentali.
Viene da sé che sviluppare un problema psicologico durante gli anni universitari attualmente è come percorrere una via tutta in salita senza nessun aiuto. Infatti un altro grande problema degli atenei italiani è che non solo generano sistematicamente problemi alla salute degli studenti ma che non sono in grado nemmeno di fornire un adeguato servizio di assistenza psicologica e sanitaria. Sportelli che non esistono o se esistono funzionano in maniera estremamente parziale a causa dei pochi professionisti a disposizione, generando una condizione che non fa altro che alimentare uno stato di frustrazione e isolamento.
A contribuire a questo crescente stato di marginalizzazione psicologica, ci sono senz’altro alcuni esempi portati come la norma a cui bisognerebbe provare a conformarsi, o quantomeno ciò a cui lo studente universitario dovrebbe tendere. Il riferimento è ai diversi casi di laureati con “risultati straordinari”, capaci di raggiungere il traguardo finale anticipatamente rispetto ai tempi previsti dai loro percorsi, che svariati media vanno ad incensare parlando di questi individui come di gente che “ha battuto tutti” o che ha “ottimizzato il proprio tempo invece di deprimersi per la pandemia”. Le parole sono importanti, e parlare di un percorso di studi come fosse una sfida, in cui chi arriva prima “batte” chi invece non ce l’ha fatta, porta la questione degli studi universitari a scivolare su un piano ben diverso da quello che dovrebbe appartenergli, un piano assai pericoloso, e lo fa per diversi motivi.
Uno di questi, che sicuramente salta più all’occhio, è la pericolosa equivalenza che si vuole tracciare tra velocità nel conseguire il titolo di studio ed efficienza, merito e capacità. Da come viene posta la questione, infatti, sembra quasi che la rapidità nel dare gli esami, anticipando i tempi rispetto alla tabella di marcia comune, sia una dote straordinaria che vada elevata a paradigma di eccellenza, che va a dare una nuova misura al termine di “merito”. Una simile retorica non fa altro che riprodurre ideologicamente quello che è l’immaginario collettivo del sistema capitalista in cui viviamo: l’impianto ideologico che così viene veicolato per mezzo del mondo universitario (ma è un processo che con proporzioni differenti inizia già a scuola) mercifica in maniera meschina qualcosa come la cultura e l’istruzione che sono diritti umani fondamentali, e lo fa perchè proprio questo è ciò di cui il capitalismo ha bisogno per sopravvivere continuamente. In un sistema come quello capitalista, la creazione di falsi miti da vendere come esempi vincenti della meritocrazia e della politica delle eccellenze serve per legittimare il fatto che tutti possono farcela.
Ma che vuol dire “farcela”? Significa accettare di entrare a far parte di un sistema in cui essere ridotti a merce, ed in quanto tale dover affrontare un percorso di studi solamente per potersi vendere meglio sul mercato del lavoro. Una simile impostazione porta lo studente/futuro lavoratore ad introiettare, in maniera incosciente, l’idea che il normale funzionamento della società lo debba vedere necessariamente in questa posizione, a doversi vendere al migliore offerente e che per farlo debba studiare solo per rendersi più appetibile a chi ne acquisterà le prestazioni lavorative. Chi non riesce a conformarsi a questi standard viene semplicemente espulso, poiché non è utile alla riproduzione del valore, alla generazione del profitto e quindi al mantenimento del sistema.
Questo processo di selezione è sempre più esercitato alla base, con l’estrazione sociale ed economica che resta il discrimine fondamentale per lo svolgimento di un sereno percorso di studi per gli studenti di ogni ordine e grado, e lo è diventata ulteriormente in quest’ultimo anno di pandemia. Il fatto stesso di dover studiare con l’obiettivo di garantirsi un certo numero di crediti, pena la perdita delle agevolazioni (per altro molto discutibili per modalità dell’erogazione e loro quantità), costituisce un fattore di pressione non indifferente che spinge lo studente a concepire il percorso di studi in termini produttivi, in cui ogni esame è un risultato da portare a casa per non pesare sulle spese della propria famiglia ma, al contempo, per non deludere le aspettative crescenti su se stessi e sulla propria riuscita al termine del percorso universitario, che ancora è concepito come ascensore sociale.
In un simile meccanismo, la pressione è continua su uno studente medio, ma non si tratta di questioni individuali, di casi singoli che hanno a che fare con storie e caratteri individuali, una dimensione a cui la narrativa borghese vorrebbe riportare il problema: a contribuire a creare un crescente clima di incertezza e disagio psicologico sono le condizioni generali in cui i giovani delle classi popolari sono inseriti. Il problema nasce dalla natura fondante della società in cui viviamo, basata sul profitto e sul conflitto tra capitale e lavoro: è in questa dimensione sociale ed inter relazionale che si deve spiegare l’emergere di vasti fenomeni di malessere psicologico, non riducendo il tutto a problemi personali, di microcosmi tra loro non comunicanti ed isolati. La spinta per un cambiamento deve provenire da qui, dalla consapevolezza che a causare questo complesso di problematiche è la realtà sociale in cui ci troviamo a vivere, una realtà che è sempre più tendente alla precarietà, alla miseria, all’incertezza per i giovani delle classi popolari.
Mettere fine a questo quadro desolante deve passare da un doppio movimento: il primo, più immediato, riguarda la necessità di lottare per pretendere un rifinanziamento della sanità pubblica, e quindi un numero maggiore di presidi territoriali per offrire cure pubbliche anche a livello di salute mentale, una misura che certamente può contribuire a controllare, monitorare e dare un aiuto più costante e capillare a chi ha necessità, ma non può permettersi centinaia di euro al mese di cure dallo psicologo.
Al contempo, però, non possiamo separare questa lotta da quella contro il sistema che produce le contraddizioni fino ad ora evidenziate, che ne sono una parte costitutiva e non un’eccezione o un effetto collaterale. Questo poiché a ben poco serve curare una persona se poi viene rigettata nella stessa giungla che ha causato la sua situazione di malessere. Per un giovane proletario oggi, il problema si pone in maniera sempre più evidente e non più rimandabile: il capitalismo è in totale contraddizione anche con la salute mentale umana. La consapevolezza di dover lottare quotidianamente ed in maniera sempre più capillare, organizzata e cosciente contro il capitalismo in ogni sua sfaccettatura deve passare anche e soprattutto da qui. Non si può continuare ad ammalarsi e a morire così, come bestie inutili poiché non possono essere messe a valore. È una responsabilità che la classe degli sfruttati deve prendere su di sé per il futuro, ma soprattutto per chi non ce l’ha fatta, e da questo sistema è rimasto schiacciato.