L’asservimento dell’istruzione pubblica ai voleri delle aziende private è un pericolosissimo processo in atto nel nostro paese, e il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è uno dei tanti strumenti con cui si cerca di portarlo a compimento, trasformandolo in una tragica realtà.
Avevamo già parlato del problema delle lauree triennali professionalizzanti. La creazione di queste lauree è stata il primo passo di una strategia che punta a frammentare l’istruzione universitaria in Italia, a dequalificarla, per renderla plasmabile sulle richieste delle imprese private. Queste avranno la possibilità di usare gli atenei per ottenere formazione di manodopera ultra-settorializzata, e quindi giovani sfruttabili, ricattabili e privi di una vera cultura da far valere.
Il PNRR approfondisce questa strategia, estendendo la possibilità che tutti i corsi di laurea triennale vengano modificati a piacimento, sul modello delle triennali professionalizzanti. La parte del PNRR con cui si sta facendo questo è la riforma delle classi di laurea.
Facciamo però un leggero passo indietro. Per capire perché si è arrivati a questo punto, vediamo come si è conclusa l’istituzione delle triennali professionalizzanti in Italia. Dal 2020, in maniera un po’ silente a causa della pandemia, le lauree triennali a orientamento professionale hanno superato la fase sperimentale, dunque sono ormai diventati corsi di laurea ufficiali dell’università italiana. Il periodo sperimentale è terminato con l’istituzione di un apposito codice di corso di laurea (L-P), confermando le principali aree di appartenenza di questi corsi, ovvero “Professioni tecniche per l’edilizia e il territorio (L-P01)”, “Professioni tecniche agrarie, alimentari e forestali (L-P02)” e “Professioni tecniche industriali e dell’informazione (L-P03)”. Ovviamente, è previsto per il prossimo futuro di allargare il numero di queste classi di laurea professionalizzanti. Rispetto al periodo di sperimentazione, si è consolidata la “struttura tripartita” di questi corsi, con una più netta distinzione dei periodi di tirocinio lavorativo rispetto al percorso di apprendimento; inoltre è stata introdotta una maggiore presenza dei privati nel percorso didattico, dando ai padroni “partner” la possibilità di essere coinvolti anche nelle attività di laboratorio, oltre che di tirocinio, quindi una ancor maggiore facilità di decidere come selezionare gli insegnamenti, in base alle caratteristiche della produzione delle proprie aziende.
A questo punto però, il governo ha dovuto affrontare lo scoglio più ingombrante. Un ostacolo tirato in ballo molto spesso negli ultimi anni dai più accaniti sostenitori della formazione terziaria professionalizzante, soprattutto esponenti di Confindustria: il rischio di sovrapposizione fra triennali professionalizzanti e ITS (Istituti Tecnici Superiori). Questi ultimi sono ormai presenti nel sistema di formazione italiano da circa dieci anni, ma al momento non hanno ancora soddisfatto le aspettative della grande imprenditoria. Pur essendo parte fondamentale della strategia padronale di sfruttamento dell’istruzione pubblica, ad oggi sono una realtà ancora estremamente debole: secondo Il Sole 24 Ore, nel 2020 gli ITS hanno contato appena 5000 iscritti per poco più di un centinaio di istituti su tutto il territorio nazionale, prevalentemente al nord, formando manodopera in misura troppo limitata. Un maggiore sviluppo delle triennali professionalizzanti potrebbe indurre molte più iscrizioni di diplomati all’università piuttosto che agli ITS, attratti dall’illusione di un inserimento lavorativo con in mano una “laurea”. Questo prevedibile drenaggio di iscrizioni è stato percepito come una minaccia di affossamento del sistema degli ITS. Tra le varie misure adottate per “salvaguardare” gli ITS da un’insufficienza di iscritti, la più importante è quella varata dal governo Draghi col PNRR, che potrà avere un impatto devastante su tutta l’istruzione universitaria: la riforma complessiva dei corsi di laurea triennale. Nello specifico, la riforma della classi di laurea, già citata sopra.
Ciò che fa il PNRR in questo caso è ridurre i requisiti di CFU richiesti a un corso di laurea per essere compreso in una certa categoria disciplinare (classe di laurea), diffondendo l’approccio professionalizzante, dando agli atenei la possibilità di manipolare gli insegnamenti in base alle competenze richieste da aziende partner. Questo vuol dire anche poter inserire nei piani di studi materie che siano affini alla formazione degli ITS, permettendo di realizzare una congiuntura tra questi e le università, che da tempo veniva auspicata da parte di personalità di Confindustria, ma che non si è mai potuta realizzare proprio per via del sistema delle classi di laurea: gli studenti potranno avere la possibilità di farsi convalidare crediti formativi all’università presentando il titolo dell’ITS, per poi conseguire anche la laurea professionalizzante dando solo pochi esami aggiuntivi.
In questa maniera il governo Draghi ottiene un doppio risultato: da un lato far sì che ogni corso di laurea triennale sia manipolabile nei contenuti, in base alla formazione richiesta dalle imprese, di fatto estendendo la logica delle lauree professionalizzanti a tutte le triennali; dall’altro sfruttare l’organizzazione delle triennali per incentivare l’iscrizione agli ITS, poiché i ragazzi saranno attirati dall’idea di ottenere due titoli in poco tempo, il primo frequentando due anni di ITS, il secondo dando pochi esami aggiuntivi per agguantare una “laurea”.
La riforma delle classi di laurea prevista dal PNRR è quanto di più allarmante sia stato finora proposto in tema di didattica in questo paese, al pari dell’introduzione della formula “3+2”. Bisogna seriamente domandarsi quale sarà la qualità di un’istruzione triennale offerta in modo completamente diverso in ogni università, plasmata in base al volere dei padroni di turno, che si inseriranno nella didattica per i loro profitti privati, per offrire un’istruzione orientata solo ed esclusivamente ai cicli produttivi delle loro aziende, per promuovere iscrizioni ai corsi di formazione privati degli ITS. In un paese in cui nel dibattito politico spesso si attacca sui “conflitti di interesse”, non ci si fa scrupoli di fronte ai conflitti di interesse reali di imprenditori chiamati a spadroneggiare nell’istruzione pubblica, ma che lo faranno solo e unicamente in base ai ristretti interessi loro e delle loro aziende.
Si potrebbe scrivere tanto su quanto sia scadente la didattica in Italia a tutti i livelli, e su quanto sia iniquo e inefficiente il sistema dei CFU, ma quel che è certo è che questa riforma darà il colpo di grazia. Nonostante tutti i limiti e i difetti, il sistema delle classi di laurea è logicamente necessario, per garantire non solo un’organizzazione coerente, razionale e completa degli insegnamenti, ma soprattutto per garantire il valore legale del titolo di studio (per quel che ne resta): omogeneità, organicità e coerenza dei saperi, affinché ogni ateneo dia a tutti le stesse opportunità di istruirsi ai massimi livelli, senza discriminazioni di classe sociale o di appartenenza territoriale.
A questo proposito non sorprende il fatto che alla Camera sia stata da poco approvata la proposta di legge che permette di iscriversi a più corsi di laurea contemporaneamente. Una prospettiva non del tutto giustificata, decisamente non richiesta e che non appare essere una priorità in questo momento, ma che è coerente con il quadro di corsi di laurea creati per investimenti di aziende diverse: permettere di studiare su due o addirittura più corsi contemporaneamente fa sì che un’azienda non giudichi sconveniente investire su corsi con meno iscritti di altri, perché in queste condizioni di “flessibilità” qualunque studente è un tirocinante e futuro dipendente potenzialmente raggiungibile. Una dinamica non surreale, anzi sicuramente favorita dalle lezioni telematiche ormai sdoganate dalla didattica a distanza. Dobbiamo aspettarci un futuro fatto di corsi di laurea che si accaparrano iscritti esibendo pubblicità dei loghi delle aziende partner, facendo a gara a chi ha un’immagine più allettante? Una degenerazione raccapricciante dell’università in uno spazio di libero mercato.
Concludiamo dicendo che la lotta contro questa distorsione degli insegnamenti non può e non deve essere una lotta di retroguardia, cioè che si limiti a contestare il PNRR per mantenere la situazione attuale. Battersi per un’università di qualità significa anche rivendicare un’istruzione basata sulle esigenze di tutta la comunità, sul progresso sociale, sulla garanzia dei diritti e sul massimo miglioramento possibile delle condizioni di vita della popolazione. Cose che non hanno niente a che fare con le promesse di titoli facili, specie se destinati a mansioni di lavoro senza tutele e senza diritti.