di Laila A. e Ivan Boine
Nelle scorse settimane in Italia ha preso vita la campagna “Student* contro l’apartheid”, promossa dai Giovani Palestinesi d’Italia (GPI) e che ha visto l’adesione di 53 sigle, tra cui collettivi studenteschi e universitari, associazioni giovanili e organizzazioni politiche. Questo articolo vuole – in continuità con questo articolo dello scorso maggio – presentare lo sviluppo della situazione in Palestina. Oltre a un focus sull’intensificarsi delle politiche repressive da parte dello Stato di Israele, in particolare nei confronti degli studenti che hanno animato le mobilitazioni degli scorsi mesi, si è provato ad approfondire la situazione politica interna palestinese, alla luce dello sciopero generale del maggio 2021 e dell’ondata di proteste che hanno fatto emergere l’estrema precarietà e la perdita di credibilità da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese.
I MESI SUCCESSIVI AL CESSATE IL FUOCO DEL 21 MAGGIO 2021
La scorsa primavera la questione palestinese era tornata nel focus dei media internazionali. Le proteste in seguito agli sgomberi a Sheikh Jarrah (Gerusalemme Est) avevano portato a una repressione brutale da parte delle autorità israeliane verso ogni forma di lotta portata avanti dal popolo palestinese. Nello specifico, di grande rilevanza era stato uno sciopero generale promosso e organizzato – oltre che dalle forze storiche della sinistra di classe – da collettivi studenteschi e gruppi politici giovanili, che aveva ottenuto un’adesione impressionante. Dopo il serio rischio di un’invasione della Striscia di Gaza – già devastata da 11 giorni di bombardamenti costanti – da parte dell’esercito israeliano, le parti in causa avevano siglato un cessate-il-fuoco il 21 maggio grazie alla mediazione dell’Egitto.
Da quel momento, l’interesse per la situazione in Palestina è completamente calato, perché tutto è tornato alla “normalità”. Come già scrivevamo a maggio, la “normalità” si è tradotta per i palestinesi nel ritorno a una situazione di soprusi, arresti di massa, intimidazioni e minacce. Il fine malcelato era – e si è rivelato – essere uno solo: reprimere chi ha organizzato lo sciopero generale, spezzare la resistenza dei palestinesi residenti in Israele, colpire gli elementi più coscienti e combattivi tra i lavoratori e gli strati popolari palestinesi, in primis delle nuove generazioni che si stanno rivelando sempre più combattive verso lo status-quo dell’occupazione. Non si tratta di un caso. Lo sciopero di maggio si era rivelato una straordinaria prova di unità e forza del popolo palestinese, con un’adesione diffusa nei territori occupati, in Cisgiordania, nei campi profughi in Libano e nella comunità giordano-palestinese, con grandi manifestazioni di solidarietà nella Striscia di Gaza. Tanto Israele quanto l’Autorità Nazionale Palestinese sono rimasti colpiti da quello che si è rivelato essere il più grande sciopero dai tempi della Prima Intifada (1987) se non addirittura dallo sciopero generale del 1936, durante il Mandato britannico.
Mentre i media erano concentrati a descrivere le trattative per la formazione del nuovo governo di larghe intese di Tel Aviv, presieduto da Naftali Bennett (partito Nuova Destra), l’imperialismo israeliano avanzava con i tradizionali metodi che trovano raramente spazio nella cronaca internazionale. Vale la pena citare alcuni esempi significativi. Il nuovo esecutivo ha rinnovato le politiche espansioniste che mirano all’instaurazione di insediamenti colonici israeliani in territorio palestinese. Nei fatti, coloni israeliani vengono inviati in aree strategiche del West Bank provocando tensioni con la popolazione locale. Per “pacificare” la situazione Tel Aviv invia suoi soldati, che vanno così a costituire un avamposto militare stabile in territorio non israeliano. Nella medesima direzione si pone un altro tassello importante dell’espansionismo targato governo Bennett, ovvero l’accordo fra Israele e Giordania sulle risorse idriche della valle del Giordano. Riguardando i territori del ’48[1] e parti del West Bank stesso, Tel Aviv riceve da uno stato limitrofo la legittimità a trattare circa aree al di fuori dei suoi confini.
2 morti, almeno 15 feriti dal fuoco israeliano. Questo è il bilancio della risposta dell’IDF alle proteste sul confine della Striscia di Gaza tra fine agosto e inizio settembre. La popolazione palestinese aveva organizzato manifestazioni contro il blocco commerciale voluto da Tel Aviv ormai 26 anni fa, che impedisce di fatto l’ingresso nella Striscia di materiali necessari per la ricostruzione dopo i bombardamenti di maggio. Fatto di una gravità eccezionale è stata l’evasione di 6 prigionieri palestinesi – in data 6 settembre – dal carcere di massima sicurezza di Gilboa, nel nord di Israele, ritenuto tra i più sicuri e meglio sorvegliati del paese. Si trattava di 5 combattenti nella Jihad Islamica e 1 militante di Fatah, quasi tutti imprigionati perché in prima linea durante la Seconda Intifada (2000-2005). L’evasione ha scatenato una caccia all’uomo senza quartiere, che ha visto l’esercito e la polizia israeliani arrestare i familiari degli evasi per prevenire qualsiasi appoggio ai ricercati. Le proteste nel West Bank e nei territori del ‘48 sono state immediate, con manifestazioni di massa a Ramallah, Nablus, Hebron/Al-Khalil e Betlemme. Durante queste proteste non sono mancate le critiche all’Autorità Nazionale Palestinese, rimando diretto all’uccisione – il 24 giugno – di Nizar Banat da parte delle forze di sicurezza dell’ANP. Banat era un giornalista palestinese che aveva denunciato l’acquisto da parte dell’esecutivo guidato da Abbas di lotti di vaccini, provenienti da Israele, prossimi alla scadenza. Per questo era stato arrestato dalla polizia palestinese. L’intera vicenda ha minato la già precaria credibilità politica del presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas (eletto nel 2005), e del suo partito, il socialdemocratico Fatah, accusati dalle nuove generazioni più combattive di governare per conservare il potere e non per difendere i diritti del popolo palestinese.
I 6 evasi sono stati tutti catturati e nuovamente imprigionati; tuttavia, le proteste non si sono fermate, soprattutto perché non si sono fermate le politiche espansioniste e le provocazioni di Israele. Per tutto il mese di ottobre nuovi insediamenti colonici sono stati stanziati al confine tra il West Bank e i territori occupati, cercando soprattutto di frammentare le aree sotto il teorico controllo dell’ANP. Il governo Bennett ha approvato a metà ottobre – il 14, un giorno dopo l’incontro fra il ministro degli Esteri Yair Lapid e la vicepresidente USA Kamala Harris – un nuovo piano edilizio nell’area meridionale di Gerusalemme Est, a Khirbet Tabalya. Lo scopo è quello di rompere i collegamenti con i villaggi palestinesi immediatamente fuori dalla città. Non solo, nella ricorrenza della nascita del profeta Maometto – festività tra le più importanti per gli aderenti alla fede islamica – soldati israeliani si sono avvicinati alla moschea di Al-Aqsa. 22 palestinesi sono stati feriti dai militari e 25 arrestati. La motivazione dell’intervento è stata quella di proteggere i fedeli ebraici (la moschea sorge infatti nell’area di Gerusalemme ritenuta sacra da islam, cristianesimo ed ebraismo).
Altre due situazioni sono significative da citare per comprendere l’attuale clima di repressione in Palestina. In primo luogo, nella seconda metà di ottobre, durante la raccolta delle olive, si sono moltiplicate le violenze nei territori occupati e in Cisgiordania da parte di gruppi di coloni sionisti e da parte dell’IDF per convincere gli agricoltori palestinesi ad abbandonare campi e fattorie. Il B’Tselem, il Centro d’informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati, ha denunciato come le azioni delle autorità israeliane e dei coloni siano indirizzate a inglobare nella barriera di separazione[2] il maggior numero di aree coltivabili possibili.
In secondo luogo, il 19 ottobre il Ministero della Difesa israeliano ha classificato sei ONG palestinesi come “organizzazioni terroristiche”. In seguito al provvedimento diversi attivisti e militanti sono stati arrestati, le sedi delle realtà coinvolte sono state prima devastate e poi confiscate. Queste le associazioni coinvolte: Addameer, associazione di supporto ai prigionieri politici e alle loro famiglie; Union of Palestinian Women Committees, organizzazione promotrice dei diritti delle donne; Bisan Center for Research and Development, che dedica la sua attività alla diffusione dei valori democratici; al-Haq, che si occupa del rispetto dei diritti umani; Defense of Children Palestine, unica associazione palestinese a occuparsi della tutela dei diritti dei bambini palestinesi; Union of Agricoltural Work Committees, sindacato di categoria degli agricoltori.
Vi è poi un altro episodio, che merita un approfondimento separato, per comprendere le nuove direttrici dell’imperialismo israeliano: la repressione nei confronti della comunità studentesca palestinese.
LA REPRESSIONE CONTRO GLI STUDENTI
Il susseguirsi degli arresti di studenti e studentesse palestinesi è diventato ormai un pilastro dell’occupazione israeliana. Gli arresti e i provvedimenti giudiziari nei confronti di studenti sono andati intensificandosi negli ultimi 10 anni, fino a raggiungere un picco nel 2018 e poi, ancora, negli ultimi mesi, e non accennano a diminuire. Secondo l’ultimo report di Addameer, nel 2020 gli studenti universitari palestinesi nelle carceri sioniste erano almeno 250.
Le azioni che possono condurre uno studente ad essere arrestato sono molteplici. Potrebbe essere l’aver condiviso un post sui social network che viene considerato come “incitazione” diretta alla resistenza, oppure aver partecipato a una fiera in università indossando un indumento che ricorda quelli dei militanti del FPLP (il Fronte popolare per la liberazione della Palestina). Per le autorità sioniste è sufficiente insinuare che una attività studentesca, dalla partecipazione alle elezioni universitarie fino all’organizzazione di un dibattito, sia in qualche modo riconducibile a Hamas per rendere legittimo l’arresto di uno o più studenti.
A tutti gli effetti non servono prove per imprigionare studenti palestinesi, perché le autorità israeliane ricorrono nella stragrande maggioranza dei casi alla detenzione amministrativa. Questo è uno degli strumenti più utilizzati dalle autorità israeliane per sopprimere ogni forma di espressione politica palestinese. Ciò che la rende così conveniente è che essa non prevede alcun processo, in quanto si basa sulla presunta pericolosità di chi la subisce. Proprio perché viene messa in atto accusando qualcuno di essere un “elemento pericoloso” non ha vincoli di tempo, e può essere estesa per molti anni, senza che il detenuto abbia alcuna possibilità di difendersi a livello legale.
Nel 2018 le forze militari israeliane, travestite da studenti palestinesi, fanno irruzione nel campus dell’Università di Birzeit a colpi di gas lacrimogeno per arrestare il presidente del Consiglio Studentesco, Omar Kiswani. Un anno dopo viene arrestata la neoeletta presidente, Shatha Hasan, a un posto di blocco nei pressi dell’università. Nel solo anno accademico 2019-2020 all’interno del Campus di Birzeit vengono arrestati 74 studenti, e nell’agosto del 2020 la DPSP (Democratic Progressive Student Pole), l’organizzazione degli studenti universitari di sinistra, viene dichiarata fuorilegge. Le ong palestinesi e anche la stessa istituzione universitaria di Birzeit hanno denunciato fin da principio la gravità di questi atti, che costituiscono violazioni continue al diritto allo studio e alla libertà di organizzazione e di parola dei palestinesi. Ma per avere un quadro chiaro della situazione dobbiamo capire le motivazioni politiche che stanno alla base degli arresti e della messa al bando delle organizzazioni studentesche.
Storicamente questi gruppi sono stati l’emanazione dei partiti politici nell’ambito universitario, ma oggi, all’interno di una società che non vede elezioni dal 2005, le cose sono profondamente cambiate. I collettivi e le organizzazioni universitarie e giovanili sono la sede in cui si misurano le tendenze politiche tra i giovani. Costituiscono i gruppi più avanzati, più attivi nelle mobilitazioni e nelle proteste. All’interno di questo quadro, arrestare il Presidente del consiglio studentesco significa a tutti gli effetti prendere di mira una figura politica di riferimento. Le autorità israeliane hanno bisogno che gli studenti rimangano isolati, non solo tra di loro, ma anche rispetto alla società che li circonda. Non tutti i gruppi studenteschi hanno connotazioni progressiste o rivoluzionarie, sia ben chiaro, ma rappresentano in questo contesto una nuova spinta verso l’organizzazione e la sedimentazione di una nuova piattaforma di lotta contro l’occupazione. Gli arresti e le persecuzioni mirano ad estirpare alla radice qualsiasi tentativo di lotta comune, unitaria e perciò forte.
Lo scorso maggio sono stati gli studenti e i lavoratori palestinesi a promuovere, da Gerusalemme alla Cisgiordania e al Libano, lo sciopero che ha paralizzato le industrie israeliane e dato un segnale potente: nella lotta per la liberazione della Palestina l’unità degli strati popolari e più avanzati è possibile, ed è la via più efficace. Ma tanto più è efficace la lotta, tanto più dura diventa la repressione. A luglio in una sola giornata ben 45 studenti dell’Università di Birzeit sono stati arrestati dalle forze di occupazione. Nei mesi successivi, come abbiamo già scritto, mentre proseguivano gli arresti, le autorità israeliane hanno lavorato per completare la messa al bando di sei organizzazioni non governative palestinesi, equiparate ora a gruppi terroristici. È sempre più chiaro come l’etichetta di “terrorista” (attribuita alle realtà più disparate) sia essenzialmente un elemento propagandistico, che le autorità israeliane da decenni affibbiano agli elementi che davvero minacciano il regime di occupazione. E il disegno alla base dell’utilizzo di questo termine è evidente: per evitare che i settori più avanzati della società palestinese si uniscano bisogna agire alla base e smantellare ogni nuovo tentativo di organizzazione. Indicare ogni gruppo come “terrorista” permette di arrestare impunemente chiunque gli si avvicini.
PER UN’ANALISI DELLA SITUAZIONE ATTUALE
La comprensione dell’attuale situazione in Palestina passa dall’analisi del cambio di governo che è avvenuto tra maggio e giugno a Tel Aviv. Le elezioni politiche del marzo 2021 avevano prodotto un quadro di incertezza. A giugno, dopo la fine dell’ennesimo esecutivo presieduto da Benjamin Netanyahu, leader del Likud (partito di destra nazionalista e conservatrice) e Primo ministro dal 2009, si è insediato un governo sostenuto da un’ampia coalizione che spazia dalla destra secolare sionista a forze socialdemocratiche ed ecologiste, fino ad arrivare a una forza araba, la Lista Araba Unita (islamismo moderato e conservatore).
Nel concreto, cosa comporta questo cambio? Netanyahu non era riuscito a formare un nuovo esecutivo perché implicato in sempre più casi di corruzione e perché accusato di non aver gestito in maniera efficacie la questione palestinese. Il governo Bennett ha fin da subito rinvigorito le politiche di Tel Aviv per risolvere il problema, forte del sostegno di un’ampia coalizione – con un partito arabo all’interno – e dell’appoggio di larghi settori del capitale israeliano scontenti delle politiche del Likud. In questa direzione possiamo notare un cambio di registro nell’agenda governativa: non più bombe, ma ondate di arresti capillari indirizzate a smantellare le organizzazioni palestinesi più combattive; nuovi insediamenti colonici nei territori occupati e nel West Bank, ma un timido piano edilizio rivolto ai palestinesi; un accordo economico storico con uno Stato arabo – quello sulle risorse idriche siglato con la Giordania – che però colpisce l’economia palestinese a favore di quella israeliana. Il punto cardine è quello della “normalizzazione” della situazione. In quest’ottica il nuovo esecutivo ha rinvigorito i rapporti con l’amministrazione Biden, trovando la riconferma degli Accordi di Abramo siglati sotto Trump e tenendo aperta una finestra per impedire che gli USA stringano nuovi accordi con l’Iran sul nucleare.
“Normalizzare” la situazione sembra, però, essere anche la priorità per l’Autorità Nazionale Palestinese, presieduta da Mahmoud Abbas (noto anche come Abu Mazen). L’ANP è da anni impegnata politicamente nel mantenere in vita gli Accordi di Oslo, di cui è diretta emanazione politica. La causa principale delle debolezze e delle difficoltà delle forze palestinesi negli ultimi decenni è la crisi politica nella quale è precipitato il sistema istituzionale disegnato nel 1993 a Oslo. La debolezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, che si dimostra ormai incapace di tracciare una strategia concreta e attuale nella direzione della costruzione di un sistema di governo palestinese – sia pure nei limiti negoziati dagli Accordi di Oslo – è uno dei principali elementi sui quali ragionare per poter superare parte delle attuali difficoltà nel campo palestinese.
Questo non vuol dire che si debba necessariamente condannare una parte delle organizzazioni politiche palestinesi per “collaborazionismo” con l’occupante. Rivolgere questa accusa a Fatah sarebbe eccessivo e anche semplicistico. Tuttavia, è chiaro che le contraddizioni di questi anni e, in ultimo, gli eventi degli ultimi mesi hanno posto delle questioni, prima fra tutte la necessità di strategia attuale per uscire dall’impasse degli ultimi anni. Rimane il dato di fatto di una grossa crisi politico-organizzativa di Fatah, dei tentativi di repressione dello sciopero e delle mobilitazioni palestinesi da parte dell’ANP e degli arresti politici di concerto con le autorità israeliane dopo il maggio 2021.
L’ANP è il frutto degli Accordi di Oslo, ed è l’entità parastatale ed amministrativa che avrebbe dovuto garantire ai palestinesi l’autodeterminazione in una porzione di territorio all’interno di quello storicamente rivendicato dal popolo palestinese. Ma, nei fatti, il territorio della Cisgiordania viene quotidianamente violato, pattugliato da contingenti israeliani e insediato da colonie fortemente volute da Tel Aviv, come abbiamo scritto. Il progetto sionista prevede l’annessione totale dei territori palestinesi e non accenna a fermarsi. Eppure, la dirigenza dell’ANP non sembra voler reagire, e continua a deludere le speranze dei settori che non hanno mai abbandonato una vera prospettiva di liberazione. Un evento che dimostra chiaramente gli intenti dell’ANP è l’incontro avvenuto tra il 29 e 30 agosto tra Benny Gantz, Ministro della Difesa israeliano, e lo stesso Abbas. Un avvenimento raro quello di un incontro allo scoperto tra figure del loro calibro, non accadeva da un decennio. Nella riunione viene discussa la concessione dei diritti di residenza a centinaia di persone in Cisgiordania, la possibilità di costruire abitazioni palestinesi nell’Area C, fino ad arrivare alla concessione di 500 milioni di Shekel (140 milioni di euro circa) all’autorità presieduta da Abu Mazen. Non è difficile individuare la ragione di queste concessioni apparentemente generose, chiarita da Gantz in persona, che dichiarava in merito: «Maggiore è la capacità dell’ANP di governare e maggiore è la sicurezza che avremo». È la sicurezza dello stato e degli insediamenti israeliani il vero tema dell’incontro. L’ANP di Abbas, accettando l’ennesimo compromesso, cerca di recuperare terreno tra i palestinesi. Parallelamente, le autorità israeliane foraggiano un’autorità che sanno di avere in pugno, che ha abbandonato ogni prospettiva di vera opposizione allo stato israeliano. Così facendo mirano ad arginare l’azione di altri gruppi più temibili ai loro occhi.
In un’altra dichiarazione Gantz sostiene che rafforzare l’ANP significa indebolire Hamas. La nostra analisi però deve andare oltre l’elemento propagandistico che mira ad accorpare nella sfera di Hamas ogni settore che si prefigga di scardinare gli attuali equilibri. Ci è bastato guardare negli scorsi mesi alle piazze e alle strade, leggere i nomi dei giovani uccisi e di quelli arrestati nei campus, fino a trovare chi ha incrociato le braccia fuori dalle fabbriche israeliane per capire che la realtà palestinese non si rispecchia in una dicotomia per cui chi non sta con l’Autorità sta con Hamas. La resistenza palestinese è composta da molte anime, tra cui numerose sono popolari e giovani. Per quanto la sua esistenza sia scomoda per le autorità israeliane, ed evidentemente anche per l’ANP, la resistenza è viva e rifiuta ogni tentativo di normalizzazione.
La combattività dei settori popolari palestinesi, mai fiaccata negli ultimi mesi, rappresenta il punto da cui partire per una riflessione che riesca a inquadrare le prospettive del popolo palestinese contro l’imperialismo israeliano. Il successo dello sciopero generale del 18 maggio e il continuo attivismo dei collettivi giovanili affermano chiaramente che la soluzione dell’occupazione israeliana passa solamente per il rafforzamento delle organizzazioni popolari palestinesi, passa dai lavoratori e dagli strati che più di tutti subiscono in tutta la Palestina storica l’oppressione dell’IDF, lo sfruttamento delle aziende israeliane, l’occupazione in Cisgiordania, l’isolamento nella Striscia di Gaza. Durante lo sciopero, le nuove generazioni, lavoratori e lavoratrici hanno dimostrato di essere in grado di porsi alla testa della lotta per tutelare i diritti di tutti i palestinesi, al di là dei check-point, del muro di Gaza, dei nuovi insediamenti colonici. E hanno continuato a dimostrarlo fino a oggi.
Il punto, per sostenere chi sta lottando, è dare a questa lotta la maggiore visibilità possibile, ritraendo la complessità della situazione attuale in Palestina, che non è più affrontabile con gli schemi degli Accordi di Oslo (1993), proponendo un binarismo inesistente fra i “democratici” di Fatah e i “terroristi” di Hamas, tirando in campo soluzioni astratte e semplicistiche che non trovano alcun riscontro nella realtà. Questo vuol dire fare quadrato attorno alle organizzazioni di classe e popolari palestinesi, rispettando la durezza delle condizioni che stanno vivendo e la difficoltà di una ricomposizione politica in grado di archiviare l’ordinamento di Oslo e rilanciare la lotta contro un nemico, Israele, che riceve giorno dopo giorno sempre maggior forza da parte di qualsiasi governo che con esso intrattenga rapporti.
[1] Per “territori del ‘48”si intendono aree assegnate allo Stato di Palestina dalla risoluzione ONU del 1947 e occupate da Israele nella guerra arabo-israeliana del 1948. Da quell’anno sono governate da Tel Aviv.
[2] Per “barriera di separazione” si intende un complesso di barriere fisiche – nei fatti, un muro – costruite da Israele lungo il confine con la Cisgiordania con finalità di «protezione dei confini» e «difesa dal terrorismo». Essa penetra in territorio palestinese di addirittura 28 km oltre il confine ufficiale, e permette a Tel Aviv di controllare la maggior parte dei pozzi d’acqua sul confine Israele-West Bank, attorno ai quali sono stati costruiti diversi insediamenti colonici.