di Giorgia Semetkova
La serie Maid, uscita sulla piattaforma streaming Netflix il 1° ottobre 2021, è ispirata al romanzo autobiografico Maid: Hard Work, Low Pay and a Mother’s Will to Survive. L’autrice del libro, Stephanie Land, è una scrittrice statunitense che ha vissuto per diversi anni al di sotto della soglia di povertà, fatto ricorso a diversi programmi di welfare sociale e perfino risieduto con la figlia neonata in rifugi per senza fissa dimora.
La serie racconta la storia di Alex, una giovane donna di venticinque anni, vittima di aggressioni verbali e violenze psicologiche ed emotive da parte del fidanzato Sean. Dopo l’ennesima aggressione verbale, culminata con un pugno e un piatto tirati al muro che spaventano la ragazza più di altre volte, questa decide di scappare di casa insieme alla figlia di quasi tre anni, Maddy. Purtroppo però Alex è sola e senza soldi: un countdown mostra come in poco tempo la piccola somma di denaro a sua disposizione si esaurisce, mentre la donna affronta la difficile ricerca di un posto sicuro in cui stare con la figlia.
La serie si concentra sul tema della violenza domestica, ma in maniera diversa ed inusuale rispetto alle consuete rappresentazioni, in quanto Sean non esercita mai violenza fisica su madre o figlia, ma perpetra violenza verbale e psicologica, quella più insidiosa e difficile da dimostrare e che in alcuni posti non non è nemmeno riconosciuta come violenza. La storia affronta pertanto il tema della violenza invisibile, quella che non lascia tracce sul corpo, ma certamente non meno pericolosa e traumatica.
Priva di parenti su cui fare affidamento, un lavoro e titoli di studio, Alex, dopo aver trascorso una prima notte in macchina, si reca presso i servizi sociali per chiedere aiuto, sperimentando la difficoltà ad accedere alle case rifugio per vittime di violenza o per persone senza fissa dimora, agli alloggi sovvenzionati e agli asili nido per sua figlia. La narrazione mette in luce in maniera perturbante i paradossi con cui le istituzioni affrontano la violenza sulle donne e il disagio sociale.
Le difficoltà che Alex riscontra sono infatti strettamente connesse alla mancanza di un lavoro (e quindi di indipendenza economica) e all’isolamento, non solo fisico in quanto col compagno viveva in un prefabbricato situato in un bosco, ma anche familiare, dovuto a un padre assente e alla madre Paula affetta da bipolarismo, instabile e inaffidabile. Al termine del colloquio, l’assistente sociale indirizza allora Alex a Value Maids, un’impresa di pulizie locale. La ragazza comincia a lavorare come donna delle pulizie a Fisher Island, dove si trovano molte ville di persone ricche, luogo contrapposto al più povero Port Hampstead, nello stato di Washington, dove vive invece Alex.
Dopo le difficoltà iniziali, la ragazza riuscirà ad accedere a un rifugio, cominciando quindi a chiedere vari sussidi economici, tra cui quelli per l’asilo nido, e a ricercare un luogo dove vivere alternativo al rifugio stesso. Tuttavia la ragazza viene ostacolata da Sean, che richiede l’affidamento esclusivo della figlia, e quindi la protagonista si trova costretta ad affrontare anche questioni legali nelle quali risulta evidente lo squilibrio di potere tra Alex e Sean, sostenuto dalla famiglia, grazie alla quale riesce a permettersi un avvocato, e la vulnerabilità di Alex, sola, senza soldi e senza parenti o amici. In questo clima, si osserva persino un rovesciamento dei ruoli di vittima e oppressore, con la protagonista che viene resa la “cattiva” della situazione.
Un pregio della serie è mostrare un profilo insolito dell’abuser: Sean infatti non è rappresentato secondo lo stereotipo dell’uomo-orco che spesso viene propinato, quindi un mostro, un essere disumano, e per questo un caso isolato in un sistema sano in cui la violenza è l’eccezione. Al contrario, mostra come l’uomo violento, amato dai suoi amici e dalla stessa madre di Alex, abbia momenti di consapevolezza dei problemi che lo affliggono e della sua fragilità e mostra quindi una tipologia di partner violento più realistica, senza però che questo lo giustifichi. Sean stesso è vittima di una società incapace di risolvere situazioni di disagio sociale e psicologico: è alcolista da quando aveva nove anni, cresciuto con una madre anch’ella alcolista e tossicodipendente.
Vengono mostrati non solo gli abusi emotivi che Sean attua su Alex e il suo tentativo di ottenere la custodia esclusiva della figlia (probabilmente un modo per trattenere Alex ma anche un sincero amore per la figlia), ma anche come lui provi a uscire dalla sua dipendenza, partecipando agli incontri degli Alcolisti Anonimi, grazie ai quali progressivamente riuscirà a comprendere le cause della sua dipendenza e a rendersi conto di cosa sarà giusto fare per il bene della figlia.
Sean riesce anche ad essere premuroso e gentile nei confronti di Alex, tanto che a un certo punto ritorneranno insieme, dimostrando il desiderio di rimanere sobrio e di costruire una vita insieme alla sua famiglia. Tuttavia i problemi si ripresentano quando Alex viene licenziata e Sean è costretto a fare due lavori che non gli permettono di avere tempo per frequentare gli Alcolisti Anonimi, oltre al fatto che è di nuovo costretto a fare il barista, lavoro che aveva deciso di lasciare a causa dell’alcolismo.
Dopo una nuova lite, Sean ricomincia a bere, imponendo alla donna un progressivo isolamento, prima negandole la ricarica al telefono e poi sottraendole la macchina. Alex si ritrova quindi nuovamente nella spirale dell’isolamento e della sottomissione. A seguito di un nuovo atto violento scappa per la seconda volta con la figlia, questa volta senza portare con sé nulla. Senza telefono, né soldi si reca di nuovo al rifugio.
La serie riesce a mostrare il desiderio e la forza di una giovane madre single che con tutte le sue forze riesce a uscire da una situazione di violenza e di disagio sociale, affrontando tutte le difficoltà che la società le pone davanti: quelle giuridiche, quelle economiche e lavorative, quelle familiari e anche quelle legate alla salute mentale. Viene infatti affrontato il tema dei traumi causati da situazioni di violenza, che spesso se non trattati possono portare a ritrovarsi, nel futuro, in dinamiche violente simili a quelle in cui si è cresciuti.
“Chissà cosa deve affrontare. Forse sta cercando di spezzare un circolo vizioso di abusi che va avanti da generazioni, ne parliamo spesso a terapia di gruppo” dice Denise, la responsabile del rifugio, quando Alex si chiede se possano fare qualcosa per salvare Danielle, un’altra ospite del rifugio con cui Alex aveva fatto amicizia e che decide di tornare dal fidanzato che l’ultima volta l’aveva strangolata. ”Capita spesso. Alla fine tornano sempre dal loro aguzzino. La maggior parte delle donne ci prova sette volte prima di andarsene definitivamente. Questa era la terza volta per Danielle. Io sono tornata per cinque volte.”
Attraverso una recitazione eccellente e uno stile narrativo coinvolgente e conturbante, Maid ricorda come la violenza verso le donne si manifesti in modi diversi, anche invisibili e per questo subdoli, e come sia essenziale garantire l’indipendenza economica delle donne attraverso la possibilità di avere un lavoro stabile e ben pagato, così come la possibilità di accedere agli asili nido, e quindi di non dover sottostare alla scelta ricattatoria tra occuparsi dei figli e lavorare. Evidenzia al contempo come sia fondamentale il lavoro dei centri antiviolenza, in Italia costantemente sottofinanziati. Essenziale risulta anche il sostegno della famiglia, degli amici e in generale della società, che dovrebbe assicurare le condizioni (innanzitutto lavorative che permettano di avere tempo libero e tempo da dedicare alla cura di se stessi) per avviare un percorso di uscita dalla violenza sia della vittima che del carnefice.
Dalla serie apprendiamo dunque che le situazioni di violenza, oltre ad essere legate a un substrato sociale e culturale ancora impregnato di misoginia e maschilismo, sono fortemente influenzate da situazioni di disagio sociale e psicologico. Queste problematiche, infatti, non possono essere risolte da un sistema capitalistico in cui la salute mentale non è considerata un diritto di tutti, ma soprattutto da un sistema che produce esso stesso tali problemi sociali e psicologici, dimostrandosi una volta di più in contraddizione con la salute umana. Da qui l’importanza di agire, non solo sul contesto culturale, ma anche sulle condizioni materiali che agevolano e riproducono la violenza.