di Ivan Boine
La polizia interviene sempre più frequentemente a scuola e in università. Questo è il filo rosso che lega quanto accaduto a Parma e a Roma. Lunedì le forze dell’ordine sono intervenute per sedare una rissa all’ITE Bodoni di Parma, chiamati direttamente dai docenti: a colpire è un video che immortala uno studente di 14 anni bloccato a terra da un agente. Ieri mattina all’Università La Sapienza di Roma, invece, la polizia ha caricato gli studenti che contestavano la presenza del deputato Fabio Roscani, eletto tra le fila di Fratelli d’Italia e presidente della sua organizzazione giovanile, Gioventù Nazionale.
I due casi, apparentemente di natura diversa, riportano all’attenzione una delle importanti questioni che devono interessare il movimento studentesco nel suo complesso. Negli ultimi anni abbiamo visto i diversi governi che si sono succeduti adottare una retorica sempre più securitaria, autoritaria e anche repressiva e fare leva, in modo strumentale, sul tema della “sicurezza” per aumentare drasticamente controlli nelle strade, nelle piazze e persino nei luoghi del sapere. Attraverso l’operazione “Strade Sicure” avviata nel 2008 dal Governo Berlusconi IV, il Decreto Minniti-Orlando, i “Decreti Sicurezza” di Salvini, con la retorica di limitare la criminalità veniva di fatto normalizzata e rafforzata la presenza delle forze dell’ordine nei luoghi del vivere comune e venivano poste grosse limitazioni al diritto di manifestazione. Con il progetto “Scuole Sicure” il Governo Conte I, ha dato il via allo sdoganamento effettivo della presenza della polizia nelle scuole, con una conseguente risposta studentesca dietro lo slogan “Le scuole sicure sono quelle che non crollano”.
Questa retorica securitaria è stata usata in maniera trasversale da tutti i partiti per garantire il consenso e la fedeltà delle Forze dell’ordine alle istituzioni, di pari passo con l’intralcio al processo d’introduzione nel nostro Codice penale del reato di tortura, arrivato dopo una serie di pressioni solo nel 2017. Di certo non lascia ben sperare (e non ci aspettavamo altro del resto) che ieri, mentre gli studenti della Sapienza venivano manganellati in piazza, la neo-Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nel suo discorso per chiedere la fiducia alla Camera dei Deputati, ha dichiarato «Vogliamo fare della sicurezza un dato distintivo di questo Esecutivo, al fianco delle nostre Forze dell’ordine, che voglio ringraziare oggi qui per l’abnegazione con la quale svolgono il proprio lavoro, in condizioni spesso impossibili e con uno Stato che a volte ha dato l’impressione di essere più solidale con chi minava la nostra sicurezza di quanto lo fosse con chi invece quella sicurezza rischiava la vita per garantirla».
Non c’è da stupirsi, quindi, che scuole e università si stiano omologando all’orientamento generale che guarda alla criminalizzazione del dissenso e alla trattazione di questioni d’ordine politico come problemi d’ordine pubblico. Un dato che già segnalavamo l’anno scorso di fronte all’intervento delle Forze dell’ordine negli atenei a Roma e a Torino e che oggi trova conferma nel comportamento della rettrice della Sapienza, Antonella Polimeni, che riesce a trovare il tempo di congratularsi con Meloni, ma non di incontrare gli studenti che da settimane sono in mobilitazione contro una serie di incontri organizzati nell’Ateneo con esponenti di destra. Gli studenti, infatti, si erano già mobilitati in occasione dell’incontro ospitato dalla Facoltà di Giurisprudenza, dal titolo Persone, minorenni, famiglie. Il cammino dei diritti e delle tutele, a cui hanno partecipato rappresentanti delle istituzioni ed esponenti di associazioni legate alla destra cattolica, tra cui l’ex senatore leghista Pillon, referente politico del Family Day.
L’ombra securitaria che attanaglia il mondo della scuola e dell’università è ormai un dato di fatto. La questione della repressione deve essere trattata con urgenza dal movimento studentesco nel suo complesso perché sta prendendo sempre più una dimensione ordinaria e sistematica. Quanto accaduto il 28 gennaio scorso, con le cariche della polizia sui cortei di Torino, Milano e Napoli, ha rappresentato chiaramente come un elemento di gestione dell’ordine pubblico, quale la circolare Lamorgese, sia stata utilizzata arbitrariamente per arginare l’agibilità politica delle forze più combattive, non solo nelle fabbriche ma anche nelle scuole. Allo stesso modo i rettori degli atenei da tempo autorizzano l’intervento delle Forze dell’ordine nei locali universitari, minando alla base qualsiasi possibilità di critica reale all’attuale sistema accademico e al sistema socio-economico da cui è prodotto. All’Università di Torino ad esempio, nel febbraio 2020, il rettorato autorizzò la polizia a contrastare, con tanto di cariche nei corridoi, la reazione studentesca nei confronti del FUAN, l’organizzazione universitaria di FdI, che voleva impedire un evento approvato dall’ateneo sui fatti del confine italo-jugoslavo nella Seconda guerra mondiale.
Il caso del Bodoni di Parma, in apparenza scollegato dalle vicende menzionate, rientra in pieno nella svolta securitaria che si sta avendo nel mondo dell’istruzione. Nelle scuole si usa l’aumento di casi di bullismo, l’uso e abuso di sostanze varie per introdurre telecamere nei corridoi, per aumentare i controlli di polizia, non seguendo alcuna logica educativa e pedagogica per trattare dei disagi seri per la gioventù. C’è un problema che andrebbe studiato da un punto di vista sociale, in cui la scuola dovrebbe svolgere un ruolo preventivo ed educativo? Lo Stato risponde con il pugno duro, con più polizia. Viene, forse, da pensare che l’intenzione sia di tenere sotto controllo un bacino di malcontento sociale, come quello studentesco, che in questi anni ha dimostrato di avere ancora, nonostante molti limiti, una spinta mobilitativa non indifferente.
Da anni siamo di fronte a un processo di costruzione di un’istruzione sempre più asservita agli interessi dei padroni; un processo che passa tanto dalle riforme operate in tal senso, quanto dalla repressione nei confronti di chi a questo sistema si oppone. Non solo queste dinamiche sono inserite nel più ampio processo di ristrutturazione della produzione, fatto dalla piena agibilità per le imprese di comprimere diritti e salari, dalla subordinazione, appunto, dell’istruzione agli interessi padronali, ma anche da una torsione autoritaria che coinvolge tutti i settori dello Stato. Se lo Stato promuove una politica di questo tipo, dispiegando l’apparato repressivo con una facilità senza precedenti, il movimento studentesco nel suo complesso deve rispondere mobilitandosi con tutta la sua forza per evitare la compressione delle libertà democratiche interne ai luoghi di studio conquistate con dure lotte. La battaglia degli studenti deve necessariamente essere unita alle lotte nei luoghi di lavoro, anch’essi segnati da un vertiginoso aumento dei fenomeni repressivi, spie di un più generale clima di torsione autoritaria che vuole minare dalle fondamenta qualsiasi elemento di concreta opposizione di classe.