Nel mondo viene uccisa una donna ogni 11 minuti. Sono 736 milioni le donne che hanno subito violenza fisica e sessuale almeno una volta nella vita, di cui 81.000 solo nel 2020. Se guardiamo all’Italia i dati non risultano di certo più rassicuranti: più di 100 donne sono state uccise solo nei primi 11 mesi dell’anno e Il 31,5% delle 16-70enni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: 4 milioni 353 mila violenza fisica, 4 milioni 520 mila violenza sessuale, 1 milione 157 mila violenze sessuali più gravi come stupro o tentato stupro.
Oggi, a più di 20 anni da quando venne istituita la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, questi dati evidenziano una realtà tanto inequivocabile quanto attuale e tutt’ora allarmante; il fenomeno della violenza contro le donne continua ad essere un elemento vivo nella nostra società, che invade ogni ambito dell’esistenza delle vittime, partendo dalla sfera personale, passando per quella sociale, lavorativa e culturale, fino a raggiungere la portata di un vero e proprio problema di salute pubblica. Ci si domanda se le tante iniziative simboliche e proclami messi in atto da istituzioni, capi ecclesiastici e Ong ogni 25 novembre, volte a sensibilizzare la popolazione su un tema così importante, siano sufficienti per porre un freno al perpetuarsi di atti di violenza, vessazioni, soprusi e sfruttamento che ancora oggi toccano in particolar modo il genere femminile nella nostra società.
Questa riflessione sorge spontanea non solo di fronte all’evidenza del fatto che l’incidenza di atti di violenza di genere non sembra essere in diminuzione negli ultimi anni, ma soprattutto al netto di alcune considerazioni che riguardano le azioni concrete, messe in campo dai Governi, per cercare di porre un argine materiale al dilagare di concezioni violente e maschiliste; si riflette in virtù dei mancati investimenti mirati alla prevenzione del fenomeno e all’assistenza delle vittime, la mancata instaurazione di percorsi legali facilitati e gratuiti, di assistenza psicologica e accoglienza. Si pone la necessità di questa riflessione soprattutto a fronte dell’instaurazione del nuovo Governo, che già dai primi segnali, ha dimostrato chiaramente di voler portare avanti politiche reazionarie, oscurantiste, retrograde e pericolose per la salute psico-fisica delle donne e per il benessere collettivo della popolazione generale.
I dati, che riassumono la portata reale del fenomeno in maniera solo approssimativa e votata al ribasso, continuano ad essere impietosi. Partendo dal presupposto che non è mai stato messo in atto da parte dello Stato un serio piano per poter offrire una rete di assistenza e prevenzione completamente pubblica e gratuita alle vittime di violenza sul territorio nazionale, la situazione assume dei risvolti ancora più preoccupanti se si considera che le sole strutture in grado di offrire questi servizi sul territorio, presenti in un numero del tutto insufficiente rispetto alle reali necessità, vengono mantenute in vita nella maggior parte dei casi da associazioni private e sono costantemente definanziate. Basti pensare che da stime recenti è emerso che solo il 2% dei fondi stanziati contro la violenza di genere vengono poi devoluti dalle Regioni a supporto dei Centri Antiviolenza e delle Case Rifugio, pur svolgendo questi un ruolo di primaria importanza ed essendo tra le poche strutture realmente in grado di offrire supporto alle vittime di violenza ed abusi (donne, ma anche bambini costretti ad assistere e subire episodi di violenza tra le mura domestiche).
Questo rappresenta solo un esempio dei tanti modi in cui si manifesta il disimpegno effettivo da parte dello Stato nel porre delle barriere materiali contro la violenza di genere. Il cerchio si allarga se poi si pensa che all’interno del piano più ampio di smantellamento della sanità pubblica, l’indirizzo complessivo pare quello di rendere sempre più difficoltoso e doloroso per le donne poter esercitare diritti, la cui garanzia dovrebbe essere interesse collettivo della popolazione.
Sono 31 le strutture sanitarie in Italia con il 100% di obiettori di coscienza per medici ginecologi, anestesisti, infermieri o OSS. Quasi 50 quelli con una percentuale superiore al 90% e oltre 80 quelli con un tasso di obiezione superiore all’80%. Un caso limite che ha fatto scalpore è rappresentato a tal proposito dal cosiddetto “Modello Marche”, dove la Regione, a gestione Fratelli d’Italia, nel 2020 presentava una percentuale di obiettori di coscienza nelle strutture pubbliche che ha superato quella nazionale, attestandosi ad una media del 70%.
Esemplare è anche la delibera, approvata dalla maggioranza del centro-destra nella regione Piemonte, per finanziare con oltre 460.000 euro enti ed associazioni Pro-life da porre fuori dai consultori della Regione per poter garantire il “diritto a non abortire”, come piace chiamarlo a vari esponenti di spicco del nuovo Governo che si sono espressi nel merito della legge 194. Sono esplicative anche tutte le segnalazioni di violenza ostetrica che le associazioni raccolgono ogni anno in tutto il Paese, o le denunce di pratiche meschine e volte a minare la salute psicofisica delle donne, come la costrizione a dover ascoltare il battito cardiaco del feto prima di abortire: no, non è una realtà che riguarda solo l’Ungheria, dove Orban (con cui la Meloni ha ottimi rapporti) l’ha reso obbligatorio, ma succede anche in Italia.
Non basterà sancire nuove leggi, come il DDL recentemente approvato dal Senato per istituire una commissione d’inchiesta sui femminicidi e sulla violenza di genere, a risolvere la portata del problema, così come non sono servite a molto le leggi già esistenti in merito: insufficienti a fronte della carenza di interventi sostanziali volti ad aiutare le vittime e a prevenire il perpetuarsi di comportamenti violenti, alla poca efficacia da parte della magistratura e delle forze dell’ordine nel rispondere prontamente sin dalle prime avvisaglie e offrire tutela reale alle donne che trovano il coraggio di denunciare, quando questo gli è permesso. Non basta elencare ogni 25 Novembre con sfarzose manifestazioni di Palazzo i numeri delle vittime per fare sì che l’anno successivo quel numero non aumenti ancora ed è ipocrita se poi contemporaneamente si tagliano fondi ai servizi sociali, se si smantellano le reti di supporto territoriali, i consultori, i servizi sanitari, se continua a non essere riconosciuto il ruolo educativo primario che dovrebbe avere la scuola per prevenire il perpetuarsi di disuguaglianze e discriminazioni.
La violenza ha vari volti: è violenza costringere le donne a dover scegliere tra il lavoro e la prospettiva di avere figli, è violenza imporre alle donne di dover emigrare da una Regione all’altra per poter interrompere una gravidanza, è violenza far sentire chi opera questa difficile scelta come un’assassina, è violento il modo in cui si continua ad utilizzare il tema delle vittime della violenza di genere solo per fare propaganda politica, il disimpegno reiterato da parte dello Stato, il disinteresse sostanziale delle istituzioni. E’ violento un sistema che mantiene alti i livelli del gap salariale, che mercifica costantemente il corpo delle donne per aumentare i profitti, che perpetua le disuguaglianze in ambito lavorativo, scolastico e sociale, che non garantisce adeguati sussidi di maternità o che strizza l’occhio alle imprese per permettere che le donne vadano a lavorare fino al nono mese di gravidanza pur di non perdere il lavoro.
Deve farsi, oggi più che mai, necessità impellente non solo per le donne, ma per tutti coloro che si riconoscono negli ideali di uguaglianza e di vera giustizia sociale, lottare contro un sistema che basa su dogmi di disuguaglianza, sfruttamento e sopraffazione il proprio stesso mantenimento. La lotta contro la violenza di genere deve essere combattuta tutti i giorni, attraverso l’organizzazione, raccogliendo più forze possibili e facendola marciare di pari passo con la lotta di classe contro l’oppressione capitalistica.