L’università italiana, dopo lunghi periodi di chiusura a causa della pandemia, quest’anno è ripartita nel segno del ritorno alla piena “normalità”, desiderata da molti studenti, senza lezioni a distanza o riduzioni di capienza delle aule. Proprio quella normalità, però, porta con sé numerose criticità, che oggi sono riemerse platealmente. Chi studia all’università risente più che mai dell’aggravarsi della situazione attuale, sia economica che politica: il sensibile aumento dei prezzi su affitti, bollette e beni di prima necessità, già avvenuto a seguito dell’acuirsi della crisi con la pandemia e aggravatosi ulteriormente con l’inizio della guerra imperialista, pone ogni studente e ogni studentessa di fronte ad un baratro. Al contempo il proseguire del conflitto in Ucraina mette tutti quanti in uno stato costante di apprensione.
La guerra, non si traduce solo nella quotidiana mattanza dei proletari russi ed ucraini, ma sta mettendo milioni di proletari del nostro paese in seria difficoltà nell’affrontare le spese quotidiane, dagli alimentari alle rette universitarie, dalle attività di svago alle spese mediche. Complice a tal proposito è il continuo drenaggio di risorse dalle casse dello Stato in spese belliche, volte a sostenere il perdurare del conflitto in atto. Una simile realtà, da cui traggono beneficio solo i grandi monopoli, tra cui anche quelli italiani (basti pensare agli immensi profitti di Leonardo, classificatasi come prima azienda per ricavi dalla vendita di armi in Europa), sta facendo piombare sempre di più gli strati popolari nella miseria.
In particolare la crisi energetica, conseguenza della guerra russo-ucraina, sta fornendo terreno fertile per la messa in atto di un sensibile livello di speculazione da parte dei grandi monopoli energetici (primo tra tutti ENI), causando un impatto diretto su milioni di proletari; L’aumento vertiginoso delle bollette pone già molte famiglie di fronte all’evidenza di non poter sopperire a tali spese, a fronte di necessità che aumentano con l’avanzare della stagione invernale, mentre varie aziende hanno già iniziato a fare perno su questa congiuntura per legittimare nuovi licenziamenti ed un incremento dei livelli di sfruttamento sui luoghi di lavoro.
La situazione attuale, insomma, va a colpire diffusamente la vita di lavoratori, disoccupati e studenti degli strati popolari, mettendo di riflesso inevitabilmente a rischio anche il diritto allo studio, in particolar modo per gli universitari, per i fuorisede, per gli studenti-lavoratori. L’accesso ai livelli di formazione superiore, già economicamente gravoso sotto molti aspetti, è infatti sempre più insostenibile. Ma cosa si trovano ad affrontare oggi centinaia di migliaia di giovani per poter studiare?
Andando ad analizzare la prima misura di sostegno agli studenti, osserviamo subito che l’assegnazione delle borse di studio continua a portare con sé delle evidenti criticità. La loro crescita in termini di numero ed importi, avvenuta negli scorsi anni e in misura comunque insufficiente rispetto alle reali esigenze studentesche, oggi si scontra con l’aumento generale del carovita. A questo bisogna aggiungere una riflessione sui criteri di assegnazione adottati che, in totale continuità con le metodologie degli ultimi 30 anni, si riconfermano profondamente escludenti: la scelta di aggiungere come discrimine per l’assegnazione, accanto ai dati reddituali, anche un criterio presuntamente “meritocratico”, nei fatti si traduce, per tutti coloro che dovrebbero accedervi per diritto, nel dover affrontare sessioni d’esame con l’acqua alla gola, cercando di assicurarsi il maggior numero possibile di crediti, il tutto mentre sempre più studenti e studentesse sono costretti a lavorare per potersi mantenere. Una realtà che non solo rende una vera corsa ad ostacoli l’accesso ad un’agevolazione minima, ma che influisce attivamente nell’aumentare la probabilità di insorgenza di stati d’ansia e stress rispetto al percorso di studi, sottoponendo gli studenti ad una pressione costante e notevole nel cercare di garantirsi un beneficio economico senza cui, in molti casi, difficilmente potrebbero proseguire gli studi.
Rimanendo nel tema delle borse di studio, quest’anno accademico si è aperto con il ritorno – che in molti casi è in realtà una conferma – in diverse regioni della vergognosa dinamica degli idonei non beneficiari. Per fare un esempio, nella sola città universitaria di Padova oggi risultano essere oltre duemila gli studenti che, pur rispettando i criteri di assegnazione, vengono esclusi dal beneficio delle agevolazioni economiche. A porre ulteriori ostacoli di carattere economico per l’accesso allo studio, si aggiunge anche la questione delle mense universitarie, dove i prezzi per i pasti da una parte sono strettamente dipendenti dai benefici per borsisti e dall’altra sono suscettibili, a causa dell’inflazione e dei continui cambi di appalto, ad incrementi di prezzo notevoli. Questo è quanto accaduto nelle università piemontesi dove l’ente regionale, a guida Lega, sta promuovendo rincari del 40%, innestandosi come ulteriore aggravante in una condizione già molto variegata e problematica.
Parallelamente, va tenuto in considerazione un altro dato di particolare gravità, non solo per il suo peso economico ma anche per il valore politico: la tassazione imposta dagli atenei è infatti cresciuta dell’82% negli ultimi quindici anni. In questo senso, perdere una borsa di studio si traduce ancor di più in un vero colpo di mannaia per migliaia di studenti. Questo dato va d’altronde a confermare che la direzione di privatizzazione dell’istruzione superiore non accenna a rallentare, sviluppando costi che la accomunano sempre più alle rette degli istituti privati. Nessuno può nascondersi dietro la No Tax Area fissata tra i 20.000€ e i 24.000€, il cui impatto è fortemente ridotto dalla riforma del calcolo ISEE del 2015.
Strutturalmente legato alle borse è poi anche l’annoso problema degli alloggi universitari, totalmente insufficienti se si pensa che spesso non bastano a coprire nemmeno il 10% delle richieste; la mancanza effettiva di infrastrutture sta portando in sempre più casi a sostituire l’assegnazione di un alloggio con dei “buoni affitto”, che non bastano a coprire il costo di una stanza e annesse spese per le utenze in nessuna città. La situazione è tanto più vergognosa a fronte della massiccia apertura di studentati privati (Campluse Student Hotel), venduti come possibili alternative ma, nei fatti, ennesima occasione di profitto privato, con posti letto a prezzi inaccessibili, che nessuno studente fuorisede degli strati popolari potrebbe mai permettersi (parliamo di stanza anche da 1200€). I fondi del PNRR, con i quali gli alloggi dovrebbero passare dai circa 40.000 attuali, non tutti assegnati, a oltre 100.000, prevedono comunque che l’assegnazione venga affidata a gestori privati, con tutti i possibili rischi che questo implica, come già denunciavamo un anno fa.
Uno degli effetti principali della mancanza strutturale di alloggi è la conseguente speculazione immobiliare. Risulta intuitivo capire che, se decine di migliaia di studenti che pur avrebbero diritto ad un alloggio non lo ottengono, il settore immobiliare viene inondato di una quantità enorme di domanda. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un ulteriore notevole aumento dei prezzi sugli affitti per studenti, superiore anche a quello costante degli ultimi cinque anni, sintomo di un generale clima speculativo.
Secondo un recente rapporto, infatti, i prezzi per una stanza singola sono aumentati con una media dell’11% rispetto al 2021, arrivando a costare anche più di 600€ nelle città più care. Con una media nazionale per stanza singola di 439€ non è difficile capire come questo possa gravare su una famiglia o di quanto possa essere complesso coprirla interamente con lavori part-time. Alla luce di queste cifre, e come già detto, a ben poco servono le svariate misure di bonus-affitto, che nei fatti si traducono nell’ennesimo travaso di soldi pubblici (e quindi di tasse di lavoratori e lavoratrici) nelle mani di privati che lucrano su una necessità basilare. Tale aumento ha inoltre spinto molti studenti a
non trasferirsi dalla propria città di provenienza per frequentare l’università, ma ad iscriversi presso un ateneo online, in modo da azzerare i costi relativi al trasferimento, causando il crollo dei giovani che effettivamente possono permettersi di spostarsi per studiare: in Italia ci sono 100.000 fuorisede in meno rispetto al 2018. L’aumento di iscrizioni registrato lo scorso anno era infatti il frutto marcio della didattica mista, che ha permesso l’accesso a tutte quelle persone per cui i sussidi, se presenti, non avrebbero coperto le ingenti spese o altre difficoltà, pagando però con l’abbattimento della qualità didattica. Con il ritorno in presenza è emersa chiaramente questa dinamica, come vedremo più avanti dall’andamento dalle immatricolazioni.
Oggi si stima che per coprire tutti i posti necessari per gli aventi diritto siano necessari investimenti da 7 miliardi, escludendo da questo calcolo i fondi da destinare alle necessarie ristrutturazioni degli alloggi già esistenti, ma che risultano fatiscenti e di fatto invivibili. In questa prospettiva i 960 milioni messi in campo, rientrano a pieno titolo tra le misure speculative spacciate per sostegno allo studio, e suonano ancora più come uno schiaffo in faccia agli studenti, se messi a confronto con i miliardi di euro che ogni mese se ne vanno in spese belliche e sgravi fiscali alle grandi imprese.
Tutte le carenze dell’università italiana gravano in particolar modo sugli studenti fuori sede figli di lavoratori, e ancora di più sugli studenti che oltre a studiare in un’altra città devono anche lavorare per poter continuare a studiare. Nonostante ciò, la situazione di difficoltà è nota anche agli studenti pendolari, che spesso si iscrivono vicino casa per non doversi trasferire e quindi pagare ulteriori spese, e che comunque vivono con la propria famiglia l’aumento del prezzo della spesa, delle bollette e dei trasporti. Gli abbonamenti per i mezzi implicano un costo sempre più gravoso, tanto più in quei contesti, particolarmente al Sud Italia, in cui la mancanza di infrastrutture è un limite ulteriore. In questo clima i criteri che inquadrano nello status di “pendolare” nei bandi per le borse risultano fortemente limitanti, poiché nella stragrande maggioranza dei casi limitati alla distanza in linea d’aria dalla propria residenza alla sede degli studi. Un ragionamento profondamente sbagliato, che non tiene conto della reale distanza percorsa, delle tempistiche e dei costi che studenti e studentesse pendolari devono sobbarcarsi quotidianamente per poter raggiungere le rispettive facoltà.
Alla luce di queste osservazioni, non ci si può quindi meravigliare se questo anno di rientro e di “ritorno alla normalità”, parte con un calo delle immatricolazioni del 3%. Questo dato evidenzia, in termini molto schietti, che migliaia di giovani degli strati popolari ritengono sempre più impraticabile ed escludente l’accesso agli studi superiori. Il fatto stesso di dover affrontare l’università senza una borsa o un alloggio, cui pur si avrebbe diritto, e dovendo pagare affitti, bollette, libri e altro materiale, crea una barriera in molti casi invalicabile, che nella migliore delle prospettive costringe molti e molte ad andare a cercare un lavoretto per arrotondare (andando ad influenzare irrimediabilmente le proprie prestazioni accademiche), mentre nel peggiore porta a rinunciare agli studi in corso d’opera.
Concludiamo con un appunto sul nuovo governo: siamo fermamente convinti che nessun governo borghese di nessun orientamento possa migliorare le condizioni di vita dei proletari, tantomeno quelle dell’università o dell’istruzione in generale. Già la nuova premier Giorgia Meloni, nonostante avesse fatto finta di “provare un moto di simpatia verso quei ragazzi” che contestano il suo operato, non ha esitato a definire gli studenti della Sapienza, caricati dalla polizia, come manifestanti non pacifici e quindi non degni di poter esprimere liberamente la propria opinione, tanto cara alla destra.
Cambiano i governi, ma il futuro che hanno in serbo per milioni di giovani è sempre lo stesso da anni: costi enormi per l’istruzione, disoccupazione, contratti precari e stage. Il rinnovo dei fondi per la guerra in Ucraina e la conferma dell’aumento delle spese militari mostrano chiaramente che nel teatrino parlamentare non c’è spazio per politiche di rifinanziamento dell’università e della ricerca pubbliche. Al contrario, le mobilitazioni all’Università di Cagliari e alla Sapienza di Roma rappresentano un primo passo sull’unica strada possibile per avere un’università accessibile a tutti e al servizio della società, quella dell’organizzazione degli studenti e della lotta. Estendere la mobilitazione contro guerra, carovita e nuovo governo agli atenei è oggi la questione che devono affrontare gli universitari italiani.