Le Marche non sono una regione per donne. Aveva suscitato l’interesse dell’attenzione pubblica un articolo uscito mesi fa sul The Guardian, in cui il quotidiano britannico denunciava la situazione critica per la garanzia dell’applicazione della legge 194, definendo la regione a trazione FDI come un “laboratorio per le politiche antiabortiste” del partito di Giorgia Meloni. A creare scalpore sul tema nel 2021 era stata la decisione espressa dalla maggioranza in consiglio regionale di impedire la somministrazione della RU486 in day-hospital nei consultori pubblici.
«Le linee guida del ministero non sono una fonte di diritto», «l’aborto è una battaglia di retroguardia che aveva senso negli anni ’60, oggi la vera battaglia da fare è per la natalità». E ancora: «Non posso accettare che siccome la nostra società non fa figli allora possiamo essere sostituiti dall’arrivo di persone che provengono da altre storie, continenti, etnie», «tutta l’Europa ha aperto alla RU 486, ma non dimentichiamo che l’Europa ha negato le sue radici giudaico-cristiane, preferendo quelle filosofiche greche della laicità spinta». Queste sono solo alcune delle argomentazioni riportate in sede di discussione dagli esponenti di Fratelli d’Italia, a cui ha fatto seguito la decisione di non attenersi alle indicazioni del Ministero della Salute in merito all’interruzione volontaria di gravidanza farmacologica, su cui ci eravamo già espressi tempo fa.
Già in Umbria e in Piemonte il centro-destra aveva contestato le linee guida del Ministero in merito alla pillola abortiva, rendendo evidente come quello delle Marche non rappresenti un caso isolato, ma sia parte di una strategia politica messa in atto dalla destra, volta a compiacere i peggiori settori conservatori, oscurantisti e clericali. Occorre ribadire tuttavia che le scelte retrograde imposte dalle amministrazioni di destra si inseriscono e trovano terreno fertile nelle enormi carenze dell’assistenza pubblica, avallate per decenni anche dalle amministrazioni di centro-sinistra, nel garantire il diritto all’aborto nel nostro Paese.
La realtà allarmante della parziale (in alcuni casi del tutto negata) applicazione della 194 nella regione Marche è, infatti, un problema che affonda le sue radici lontano nel tempo, in anni di tagli e smantellamento della sanità pubblica, nella carenza di consultori sul territorio regionale e nella presenza di percentuali bulgare di obiettori di coscienza negli ospedali. Stando ai dati disponibili contenuti nella relazione del Ministero della Salute sull’attuazione della 194 e riferiti al 2020, nelle Marche il tasso di abortività è del 4,5%, inferiore rispetto a quello nazionale (5,4%), mentre la percentuale di ginecologi obiettori raggiunge il 70% superando la media nazionale (64,6%) con punte del 100% negli ospedali di Fermo e Jesi, ai quali si aggiungono il 42,6% degli anestesisti e il 22,5% del personale non medico: tutte percentuali che seguono un andamento incrementale nel corso degli ultimi anni. Basta pensare che l’8,3% di donne sono costrette a recarsi in strutture fuori regione per poter ricorrere all’IVG per capire quanto drammatica sia la situazione attuale. A margine va detto infine che questi dati vanno letti in riferimento alle politiche dei partiti che hanno governato la regione in precedenza, e in particolare del Partito Democratico, che in oltre 20 anni di amministrazione nulla hanno fatto per garantire pienamente alle donne l’accesso all’IVG.
E’ in questo scenario, che già di per sé basterebbe per delineare un quadro che potremmo definire emergenziale, che si inserisce la recente decisione della Regione Marche di interrompere la convenzione tra la ormai ex Area Vasta 5 e l’AIED (Associazione Italiana per l’Educazione Demografica). La convenzione, stipulata inizialmente nel 1981 per adempiere ai termini prefissati dalla legge 194 cui l’ospedale di Ascoli Piceno non riusciva ad allinearsi, nel 2010 non era stata rinnovata e per 12 anni l’associazione veniva autorizzata settimanalmente per le sedute; questo fino al 29 dicembre 2022 quando l’Area Vasta ha messo fine alla collaborazione con questo ente che solo nel 2020 ha garantito 232 interruzioni di gravidanza nelle Marche sui 1.351 aborti volontari complessivi effettuati in regione (20% ca.).
L’interruzione della convenzione avviene in concomitanza con la riforma dell’assetto sanitario regionale, che vede la sostituzione del sistema dell’Asur (Azienda sanitaria unica regionale) e delle Aree Vaste, con l’istituzione di 5 Aziende Sanitarie Territoriali, ognuna con un proprio direttore socio-sanitario e tutte dotate di “piena autonomia organizzativa e di spesa”. Questo significa che ciascuna azienda sanitaria d’ora in poi avrà la possibilità di provvedere autonomamente alla gestione delle risorse finanziarie, del personale e delle risorse strumentali.
Mentre la Regione procede a mettere in moto la riorganizzazione complessiva del sistema sanitario regionale, dando un’ulteriore spinta all’aziendalizzazione sempre più marcata dell’assistenza pubblica e moltiplicando i costi del personale amministrativo, negli ospedali marchigiani la carenza sistemica e sempre più marcata di medici, infermieri ed OSS continua a mettere in seria difficoltà il normale funzionamento di reparti importanti come l’emergenza-urgenza e dei pronto soccorso, negando di fatto la garanzia di servizi di primaria importanza a larghe fette della popolazione. Stando ai dati dell’OPI (Ordine delle Professioni Infermieristiche) nella regione mancano circa 400 infermieri e altrettante unità di Operatori socio-sanitari. Dai concorsi pubblici del 2020 sono scaturiti circa 2000 idonei all’assunzione, ma di questi solo 312 sono stati chiamati dalle AST e le graduatorie regionali stanno andando incontro a scadenza irreversibile. La situazione non è migliore per il personale medico; la carenza di ginecologi infatti, nella sola provincia di Macerata, fa riscontrare un rapporto di 1 solo ginecologo ogni 18.460 donne: dato ben al di sotto della media nazionale, che si attesta sulla presenza di un ginecologo ogni 4132 donne.
Insomma, tra le tante proposte (per ora ancora su carta) che la Regione ha fatto nell’ambito dell’applicazione della missione 6 del PNRR per ripensare la sanità regionale, pare che non trovino spazio né un serio piano di assunzioni e stabilizzazioni per il personale sanitario, né tantomeno l’investimento di risorse in strutture e servizi volti a garantire il diritto per le donne ad avere accesso all’IVG; anzi, su questo piano si taglia ulteriormente, interrompendo collaborazioni con enti perché ritenute “troppo dispendiose”.
La scelta di interrompere una gravidanza per le donne non è mai un’opzione tenuta in considerazione a cuor leggero, ma è una decisione frutto di un percorso complesso, dietro cui spesso si celano violenze, paura, mancanza di possibilità materiali e incertezza per il futuro. Le carenze dell’assistenza sanitaria hanno avuto nel tempo l’effetto di porre degli ostacoli, spesso invalicabili, di fronte alla libertà di una scelta tutt’altro che facile, con il rischio di aumentare il ricorso a pratiche clandestine in grado di mettere realmente in pericolo la salute delle donne o di spingerle a dover affrontare dei veri e propri viaggi della speranza pur di vedersi riconosciuto l’accesso ad un servizio che dovrebbe essere garantito per diritto. Risulta quasi superfluo, in questo contesto, ribadire che a risentire maggiormente di queste carenze sono soprattutto le donne degli strati popolari, impossibilitate nel potersi spostare fuori regione, o nel rivolgersi a cliniche private per avere la certezza di poter usufruire di un servizio rapido, efficiente e sicuro.
Il Governo Meloni, sin dalla campagna elettorale, ha mostrato di volersi fare portavoce delle peggiori pulsioni oscurantiste e clericali. Questo indirizzo è poi stato reso effettivo con l’instaurazione del nuovo esecutivo attraverso l’introduzione del “Ministero della Famiglia e della Natalità”, con l’indicazione dell’ultra-cattolico conservatore Lorenzo Fontana come presidente della Camera dei Deputati, così come con i forti richiami alla forma della famiglia tradizionale e cristiana che permeano la propaganda di Governo in ogni contesto. Il rischio che questi indirizzi non rimangano solo su un piano culturale e ideologico, ma che si facciano direttiva sostanziale nel mettere in discussione diritti volti a garantire il benessere collettivo è lampante. La situazione della Regione Marche a tal proposito è un esempio che, trovando terreno fertile nelle carenze del sistema sanitario sul territorio nazionale, potrebbe essere riprodotto anche in altre regioni e in molti casi questo è già una realtà effettiva.
In Italia solo il 60% degli ospedali con reparti di ostetricia offre il servizio di IVG e sono 31 le strutture sanitarie con il 100% di obiettori di coscienza per medici ginecologi, anestesisti, infermieri o OSS. Quasi 50 quelli con una percentuale superiore al 90% e oltre 80 quelli con un tasso di obiezione superiore all’80%. 7 ginecologi su 10 impiegati nel settore pubblico sono obiettori di coscienza. Basta prendere in considerazione questi pochi dati per comprendere come oggi la lotta per la difesa del diritto all’aborto non possa essere scissa da quella più generale per l’applicazione della legge 194, attraverso la rivendicazione di una sanità realmente pubblica, gratuita, di qualità e accessibile a tutti.