Con il cosiddetto Decreto Lavoro il governo Meloni ha assestato un ulteriore colpo nella carne viva dei lavoratori e dei proletari di questo paese, rendendo più precari e ricattabili i lavoratori, regalando sgravi fiscali alle imprese e finanziando in maniera sempre più illimitata la spesa militare. Nel solco dell’agenda Draghi e degli indirizzi economico-strategici indicati dai monopoli italiani, si procede nel sempre più organico coinvolgimento dell’Italia nei piani di morte della NATO, scaricando il costo del conflitto e delle scelte dell’esecutivo sulla pelle dei lavoratori e degli strati popolari. Sono sotto gli occhi di tutti l’aumento dell’inflazione, la diminuzione del potere di acquisto dei salari reali, le sempre più gravi difficoltà nel riuscire ad arrivare a fine mese.
Se sul piano delle lotte reali diverse vertenze del mondo operaio, dalla COOP di Milano, alla Stellantis di Pomigliano, passando per la lotta dei disoccupati organizzati di Napoli, sono in fibrillazione e movimento, da parte delle dirigenze confederali, dopo la figuraccia al Congresso della CGIL, tutto tace. D’altronde il Governo Meloni sta tirando dritto come un carro armato e, al pari del suo predecessore, ha sempre meno bisogno di contrattare al tavolo con CGIL-CISL-UIL le riforme e le leggi da promuovere, anche se sostanziali, anche se sempre più orientate ad aumentare i profitti dei padroni. Ormai più che di tavoli di trattativa si assiste a comunicazioni di servizio, a cui ad una risposta mobilitativa sotto lo zero corrisponde una diminuzione del peso contrattuale sempre più evidente della triplice. All’interno della diminuzione progressiva del peso al tavolo delle trattative col Governo dei confederali si inseriscono le 3 manifestazioni inter-regionali di Bologna, Milano e Napoli indette lungo il mese di Maggio. Manifestazioni che nei fatti sono un dietrofront rispetto alla prospettiva di sciopero generale tanto strillata dal segretario della CGIL nelle settimane precedenti, ma in piena continuità rispetto all’indirizzo di sempre maggiore cogestione del sistema con i padroni e lo Stato.
“Cane che abbia non morde“, si diceva una volta. Ha ragione -a modo suo- Landini nelle recenti dichiarazioni: “Non è il momento della protesta e basta”. Serve infatti lo sciopero generale come elemento attorno al quale costruire una risposta di massa al coinvolgimento dell’Italia nei piani di morte della NATO e nella guerra imperialista in Ucraina. Serve riaprire un ciclo di mobilitazioni e di scioperi contro le politiche antipopolari del governo Meloni e il carovita che erode giorno per giorno i salari dei lavoratori.
Il ruolo delle dirigenze confederali, in particolare quello della CGIL, è fortemente negativo in questo contesto. Dietro la “conservazione” dell’unità inter-confederale con la CISL, si cela la volontà scientifica di uccidere sul nascere qualsiasi vagìto di risposta all’attacco che i lavoratori stanno subendo da decenni a questa parte. I dirigenti di queste organizzazioni lo sanno bene e lavorano sistematicamente per convincere i lavoratori che l’unico orizzonte per loro sia nei margini di compromesso e cogestione con i padroni all’interno dell’attuale sistema di sfruttamento e miseria.
Bene hanno fatto quei lavoratori e delegati della FIOM che hanno contestato alla manifestazione di Bologna non solo le dirigenze confederali, ma più in generale l’accondiscendenza dei loro vertici alla pacificazione dello scontro sociale. “Giù le armi, su i salari” e “sciopero, sciopero generale” non sono solo degli slogan gridati in piazza: sono un piano immediato di lotta su cui costruire l’attivazione e aggregazione di quegli iscritti ai sindacati confederali che non concordano con la linea di pacificazione dei propri vertici. Compito delle avanguardie combattive e di classe è intercettare questo dissenso, certo di pancia e ancora embrionale, e incanalarlo nella direzione di rafforzare il fronte di lotta contro la guerra e il carovita su una base anticapitalista e classista.
La prospettiva dello sciopero generale, non come panacea di tutti i mali che affliggono il movimento operaio, ma come elemento politico per rafforzare le lotte e contribuire all’accumulazione di forze sane è oggi centrale. In questa direzione devono premere le forze sane del sindacalismo conflittuale e chi, in disaccordo con le scelte delle dirigenze confederali, sente sempre di più che occorre costruire una risposta decisa e corposa alle politiche padronali. Proprio perché oggi esiste oggettivamente lo spazio per aggregare attorno a questa parola d’ordine una parte significativa di salariati e disoccupati, sarà necessario da qui in avanti lavorare in maniera sistematica in tale direzione, partendo proprio da quelle piazze e mobilitazioni che già esistono.
Sbagliano, in questo senso, quelle strutture sindacali e non che, per conservazione ed autorappresentazione, perimetrano la prospettiva dello sciopero generale attorno unicamente alla propria organizzazione, isolandosi e indebolendo il fronte dei lavoratori.
Ad esempio, lo Sciopero Generale del 26 Maggio, pur inserendosi in un contesto favorevole e avendo colto la necessità di mobilitarsi, ha dei forti limiti non solo sul piano dell’adesione reale dei lavoratori – tema che con cui prima o poi tutti noi dovremo fare i conti – quanto nella posizione di forte depotenziamento a cui è costretto per l’assenza di un percorso comune ed unitario con l’intero mondo sindacale combattivo e conflittuale. In questa fase non servono fughe in avanti, ma aprire un dibattito franco e pubblico attorno alle divergenze che esistono nelle prospettive politiche e strategiche delle strutture sindacali: senza questo passaggio rischiamo di rimanere confinati agli scioperi rituali che allontanano ancora di più la ricomposizione del movimento operaio. Oggi, più che porsi il problema di intestarsi in astratto le iniziative di piazza, occorre costruirle realmente, produrre un avanzamento sostanziale sul terreno dell’unità di classe, che vada a sviluppare in positivo per il movimento operaio l’attuale correlazione di forze.
Uno sciopero generale contro guerra, economia di guerra, governo Meloni e carovita dilagante non può “darsi” per slanci volontaristici o attese messianiche, ma è il prodotto di un percorso che ricomponga i mille rivoli delle vertenze e delle lotte in questo paese, riconducendole in un unico piano mobilitativo, in un’unica “piazza”. Nella fase attuale la questione della guerra ha una centralità cardinale perché è “La Questione” del nostro tempo e si interseca inevitabilmente con la parola d’ordine dello sciopero generale.
In questa direzione un importante momento sarà rappresentato dall’assemblea nazionale dell’11 giugno a Milano, in cui sono stati chiamati a confrontarsi tutti gli organismi sociali, politici, sindacali, nonché i singoli e le singole militanti, disposti a battersi per rilanciare l’iniziativa di classe e internazionalista contro la guerra imperialista. Per cambiare passo serve gettare le basi per un movimento popolare contro la guerra e aprire nei prossimi tempi un dibattito franco e pubblico sulla costruzione di uno sciopero generale che faccia pesare sul “tavolo” la forza organizzata della nostra classe.
Così che “fare come in Francia” non diventi solo uno slogan vuoto, ma una bussola ed una prospettiva concreta verso cui orientare la nostra lotta contro il sistema capitalistico, per costruire il mondo nuovo.