A cura dei compagni dell’Università degli Studi di Catania
Con l’insediamento al Governo del nuovo esecutivo si è riaperto il dibattito ormai decennale sul progetto del Ponte sullo Stretto di Messina. Prima di andare ad analizzare le questioni politiche legate alla costruzione del ponte, è bene fare una ricostruzione cronologica degli eventi che hanno animato la questione.
La gara d’appalto per la costruzione del ponte venne aperta nel 2003 dall’allora governo Berlusconi, sulla base del progetto della società Stretto di Messina S.p.a, costituitasi nel 1981. Il progetto prevedeva la costruzione di un ponte a campata unica con una luce di 3300 metri, cosa che lo avrebbe di fatto reso il ponte sospeso più lungo del mondo.
La gara d’appalto venne vinta nel 2005 dalla società Eurolink, che faceva riferimento a Impregilo S.p.A. (oggi Webuild), per un progetto dal valore totale di 3,88 miliardi. Dopo lo stop voluto dal Governo Monti, con una liquidazione delle parti per 300 milioni di euro, scelta dettata dalle politiche di austerità e spending review imposte dall’UE post crisi del 2008, il progetto di costruzione del ponte sullo stretto di Messina sembrava essere definitivamente archiviato. Nel 2021 il governo Draghi aveva commissionato uno studio sulla fattibilità dell’opera, ma è proprio nel 2023 che, il nuovo esecutivo guidato da Giorgia Meloni, con Matteo Salvini al ministero delle infrastrutture, riscopre il progetto riportando il tema della costruzione del Ponte al centro del dibattito pubblico. Al netto delle dichiarazioni propagandiste del Ministro Salvini, che ha trovato nel Ponte sullo Stretto un cavallo di battaglia per dare maggiore centralità e risalto al ruolo che ricopre, l’unica operazione concreta realizzata finora dell’esecutivo è aver resuscitato la Stretto di Messina S.p.a, azienda partecipata dallo Stato e Anas.
La società dal 1981 al 2013 (anno dello stop definitivo) è costata 300 milioni di euro, tra stipendi di amministratori delegati e spese di copertura, concludendo nient’altro che alcuni lavori preliminari che hanno portato alla deviazione della linea ferroviaria nella zona di Cannitello. Il decreto ministeriale, oltre a riassegnare il progetto alla Stretto di Messina S.p.a, apre alla possibilità di concludere il contenzioso legale aperto da Eurolink con lo Stato a seguito dello stop dei lavori voluto dal governo Monti. La WeBuild, società inserita in Eurolink, è una multinazionale italiana operante in 50 Paesi nella realizzazione di grandi opere di ingegneria civile.
Tra le principali e più recenti, appare senz’altro lo stadio Al-Bayt, uno dei più rappresentativi centri sportivi in Qatar e fulcro della manifestazione dei Mondiali 2022: l’opera, dall’indiscutibile impatto visivo, si è trascinata dietro con la sua costruzione una storia di sfruttamento, povertà e morte. Nonostante la Fifa, i media qatarioti e la stessa WeBuild la elogiassero come la prima opera sportiva ecosostenibile, secondo Guardian nei 10 anni di costruzione sono morti almeno 6500 lavoratori, per lo più immigrati, pagati tra i 45 e 60 centesimi di sterline all’ora, sottostando a turni e condizioni massacranti, spesso in assenza delle minime condizioni di sopravvivenza (mancanza di cibo ed acqua insomma). La WeBuild ha sempre ignorato ogni inchiesta.
La società è, inoltre, leader mondiale nel settore delle dighe e dell’idroelettrico, avendo realizzato numerose opere tra Africa, Asia e Sud America, come la El Quimboin Colombia o la diga Mosul in Iraq, non senza controversie legate a problematiche ambientali e violazione dei diritti delle popolazioni locali. Ma la più discussa è la diga Gibe III in Etiopia, ultimata nel 2015 e che nel giro di pochi anni ha devastato l’ecosistema della zona e ha affamato migliaia di indigeni, causando inoltre tensioni per le poche risorse disponibili.
UNA GRANDE OPERA (INUTILE)
Prima di entrare nel merito della discussione sull’utilità di un’infrastruttura di questo tipo occorre fare una premessa: negli ultimi anni sono fioccati in tutta Europa movimenti che, in linea con i precetti della decrescita felice, si sono impegnati nell’opposizione aprioristica alla costruzione di grandi opere. Respingiamo questo approccio, non tanto perché ci interessi difendere determinate scelte governative, quanto per l’idea, errata, che una riduzione graduale della produzione, degli investimenti e dei consumi individuali, possa permettere il raggiungimento di una situazione di uguaglianza sociale ed equilibrio ecologico all’interno del sistema capitalista. Il progresso non deve essere visto a prescindere con diffidenza, ma va analizzato criticamente per smascherare gli interessi di classe che vi sono dietro: l’utilità o meno della costruzione di una grande opera dipende dagli effetti che questa ha sulle condizioni di vita delle classi popolari.
Il ponte sullo stretto non può certo essere annoverato tra le opere utili al miglioramento delle condizioni di vita dei proletari.
Infatti, a fronte di un risparmio stimato di circa 40 minuti di viaggio, tecnici e comitati No ponte hanno evidenziato numerose criticità. La costruzione del ponte non andrebbe a generare grandi benefici economici: la sola costituzione dell’azienda “Stretto di Messina S.p.a” è costata ai contribuenti italiani già 300 milioni di euro. Secondo un allegato del DEF (Documento di Economia e Finanza) i costi previsti per la realizzazione dell’opera si aggirano intorno ai 13,5 miliardi di euro, tutti a carico della fiscalità generale sostenuta in larga parte dalla contribuzione di lavoratori e pensionati.
I costi non saranno ripagati nemmeno con il traffico stimato in quanto le previsioni dei progettisti valutano un utilizzo del ponte che si aggirerebbe intorno all’11% della capacità complessiva (11,6 milioni di auto l’anno, a fronte di una capacità complessiva teorica dell’opera di circa 105 milioni di auto l’anno).
Da tenere altrettanto in conto sono i rischi legati ad infiltrazioni nel progetto da parte di quella borghesia mafiosa che, nella costruzione di grandi opere, in Sicilia e in tutta Italia, ha sempre fatto lauti affari.
La retorica intorno all’esigenza imminente di costruire un’opera di questo tipo si schianta brutalmente davanti ad una realtà, quella siciliana e del Sud, fatta di assenza di servizi e carenza delle infrastrutture più basilari. È un dato ad esempio che in tutto il Mezzogiorno circolino meno treni regionali della sola Lombardia: solo il 12% della rete ferroviaria è a doppio binario e il 37% di questa non è ancora elettrificato. In Sicilia, i treni che collegano i due capoluoghi più grandi, Palermo e Catania, impiegano non meno di 3 ore e 15 minuti (salvo ritardi) con una scarsissima frequenza giornaliera. Il trasporto su gomma è eccessivamente rallentato da una rete autostradale che, lungi dal raggiungere tutti i maggiori centri, risulta obsoleta e perennemente interrotta da cantieri che allungano inevitabilmente i tempi di percorrenza. Allo stesso modo, il traffico nelle città risulta essere eccessivamente congestionato a causa della totale assenza di sistemi di traporto pubblico efficienti che relega le città siciliane agli ultimi posti delle classifiche della mobilità sostenibile. Per non parlare degli aeroporti e delle speculazioni delle compagnie aeree che vedono nella Sicilia un enorme hub turistico, salassando i lavoratori e studenti emigrati che devono rientrare a casa nei periodi di alta stagione.
UN’OPERA “GREEN” E SICURA?
La geologia dello stretto di Messina presenta caratteristiche uniche di complessità sismo-tettonica. È stata definita dall’Istituto di Scienze Umane del CNR un’area cruciale nella quale avviene l’interazione tra profonde strutture tettoniche ed estesi blocchi crostali che convergono, divergono, e si muovono lateralmente tra loro, provocando terremoti, frane sottomarine, tsunami e vulcanesimo. Sia la Calabria meridionale che la Sicilia orientale, infatti, sono inserite tra le zone sismiche con pericolosità di tipo 1. Al netto delle rassicurazioni governative sulla costruzione di un ponte sicuro da questo punto di vista, diversi geologi segnalano che l’area in questione potrebbe essere colpita da eventi sismici, di natura tettonica o vulcanica, che supererebbero di gran lunga la soglia di resistenza del ponte. Basti pensare che nel 1908 la provincia di Messina fu colpita da un terremoto di magnitudo 7.3 sulla scala Richter, che causò oltre 100 mila vittime: la più grande catastrofe naturale della storia d’Europa.
Il Ministro delle Infrastrutture Salvini ha definito il Ponte sullo Stretto “la più grande opera green del mondo”. Molte associazioni ambientaliste, tra cui il WWF e il Kyoto Club hanno contestato queste dichiarazioni, ricordando che il Ponte sorgerebbe proprio in un’area compresa in zone protette, tutelate dalla Direttiva comunitaria Habitat. Allo stesso modo, la Commissione VIA del Ministero nel 2013 espresse un parere negativo di valutazione di incidenza sul progetto definitivo del ponte ad unica campata del 2010, proprio a tutela dello Stretto di Messina, importantissimo luogo di transito per l’avifauna e per i mammiferi marini, dove si concentra una delle più alte concentrazioni di biodiversità al mondo.
PUNTO MILITARE
Ulteriore elemento di riflessione da fare sulla realizzazione del Ponte sarebbe quello sull’importanza che l’opera assume da un punto di vista geopolitico e militare. Nelle FAQ sul Ponte sullo Stretto emanate dal Governo si cita testualmente che “l’opera non è quindi solo il collegamento tra due nodi nazionali, Messina e Reggio Calabria ma, in una visione europea più ampia e strategica, tra il Mare del Nord e il Mediterraneo.” Un’ipotesi questa, ripresa anche dal direttore di Limes, Lucio Caracciolo, in un articolo scritto per “La Stampa” il 7 dicembre scorso. Nella sua analisi emerge che il Ponte di Messina sia sopratutto strumentale al collegamento diretto con il continente della stazione MUOS di Niscemi e delle basi militari siciliane, su tutte Sigonella. Viene riaffermato quindi il valore strategico che la Sicilia ha nel controllo del Mediterraneo e dei suoi fondamentali flussi commerciali, grazie al suo posizionamento geografico, naturalmente proiettato nelle aree di più alta tensione internazionale.
Il Ponte sullo stretto rappresenta dunque, in ultima istanza, un ulteriore tassello nel processo di militarizzazione della Sicilia, agevolando la movimentazione di attrezzature e mezzi utili ai monopoli nostrani e Nato nella grande sfida dei centri imperialisti per il controllo politico e militare del Mediterraneo. La costruzione del ponte accresce ulteriormente la centralità della Sicilia nelle dispute interimperialiste, accreditandola come principale bersaglio strategico in caso di scontro diretto tra le potenze che si contendono il controllo del Mar Mediterraneo.
PROSPETTIVE DI LOTTA
L’opposizione alla costruzione del Ponte sullo stretto si inserisce nel solco del contrasto alle politiche della borghesia italiana di valorizzazione del capitale attraverso la circolazione più agile delle merci, in barba a qualsiasi concetto di salvaguardia ambientale. Il ponte sullo stretto, oltre a deturpare un paesaggio ed un ecosistema unici, andrebbe costruito in un’area ad alto rischio idrogeologico, in cui negli anni vi sono state decine di morti a causa di crolli, frane, alluvioni e terremoti.
Questa presa di posizione non vuole in alcun modo difendere l’attuale modello di attraversamento dello stretto, in cui un’azienda privata in regime di quasi monopolio, regola i flussi offrendo un servizio costoso, poco efficiente e altamente inquinante a causa dell’obsolescenza del parco navi.
Lo stretto di Messina va certamente salvaguardato da speculazioni e opere distruttive. Allo stesso modo, il servizio di attraversamento va implementato per studenti e lavoratori pendolari attraverso una politica di statalizzazione dei traghetti regolata da un aumentato controllo popolare e di intervento mirato nella costruzione, o nel miglioramento, delle infrastrutture di due delle regioni più penalizzate in Italia da questo punto di vista, la Sicilia e la Calabria. Queste sono le nostre priorità.