di Giovanni Ragusa
Martedì 21 novembre presso l’Università di Firenze si è tenuta la sessione di senato accademico dell’Ateneo fiorentino. Per l’occasione, la componente studentesca aveva avanzato una mozione che avrebbe dovuto mettere all’ordine del giorno nella discussione alcune richieste chiare e nette: la rescissione di tutti gli accordi tra UniFi e università israeliane, lo stop a ogni collaborazione tra UniFi e industrie del settore bellico, una presa di posizione dell’Ateneo contro il genocidio in atto in Palestina.
Questioni che volevano evidenziare la contrarietà della comunità studentesca all’attuale genocidio portato avanti dallo Stato d’Israele contro il popolo palestinese. La sera prima del senato, però, è giunta agli studenti la notizia che la rettrice Petrucci non avrebbe permesso di discutere la mozione in virtù di un comma presente nel regolamento di Ateneo, che sostanzialmente le consente di non inserire nell’ordine del giorno mozioni ritenute lesive del prestigio dell’università nella sua piena discrezione, impedendo quindi di discutere le proposte. A inizio senato, interrogata dagli studenti sulla questione, la rettrice si è limitata a dire che l’università non può essere luogo in cui affrontare simili questioni, adducendo una presunta neutralità dell’istituzione accademica e ribadendo -a parole- una contrarietà a tutte le guerre.
Già questo aspetto, da solo, rivela quanto la tanto millantata democraticità degli organi di discussione universitari sia una questione in realtà puramente di facciata. Se da regolamento si può impedire di discutere qualsiasi mozione che provi a mettere in discussione le questioni più radicali all’interno del mondo accademico, risulta evidente come la sola rappresentanza non può permettere di raggiungere gli obiettivi più avanzati che il movimento universitario si deve porre.
Nella consapevolezza di quanto sarebbe accaduto, per l’occasione era stato convocato dagli studenti un presidio fuori dal senato. Dopo una breve contestazione davanti al plesso in cui si svolgeva la seduta, difeso per l’occasione dalla polizia in antisommossa, gli studenti presenti hanno ritenuto necessario alzare il livello della lotta, spostandosi nel chiostro della biblioteca di lettere distante poche centinaia di metri, così da coinvolgere altri studenti in un’assemblea aperta per discutere dell’accaduto. Nel breve tragitto, muovendosi in corteo, sono stati però ostacolati dalla polizia che li ha seguiti e, all’ingresso della piccola via dei Fibbiai, ha iniziato a manganellare il gruppo di studenti che fino a quel momento si era dimostrato assolutamente pacifico. Dopo aver subito la prima carica, il corteo è proseguito e una volta arrivati davanti al cancello d’ingresso della biblioteca di lettere in piazza Brunelleschi, c’è stata la seconda carica da parte della polizia, che ha sostanzialmente cercato di impedire agli studenti di entrare nella propria sede e di svolgere l’assemblea.
A posteriori, la ricostruzione che è stata venduta ai principali giornali locali e nazionali è stata che il corteo “era diretto presso la sinagoga”. Una narrazione falsa, che non affonda nella realtà nè dei fatti nè delle intenzioni, e che cerca ancora una volta di criminalizzare chi alza la voce, cercando di omologare la giusta lotta degli studenti contro il genocidio in Palestina con accuse assolutamente infondate di antisemitismo. La verità è che, mentre la rettrice dichiara che l’Ateneo non può prendere una posizione, ma rimanere neutrale, viene sguinzagliata la polizia armata di scudi e manganelli per reprimere chi, invece, una posizione l’ha già presa e non accetta di essere complice del genocidio in atto.
Quanto avvenuto apre finestre di riflessione che pongono elementi di estrema criticità. In primis, conferma il crescente clima di repressione che sta interessando qualsiasi forma di lotta organizzata che nasce a partire dalla scuola, dall’università, fino ai luoghi di lavoro. L’abbiamo visto nel corso di quest’anno in una scuola di Parma, durante i cortei studenteschi che chiedevano giustizia per gli studenti morti in alternanza, all’università La Sapienza di Roma e di nuovo all’Università di Torino poche settimane fa. La crescita del clima securitario è sempre più evidente, e oggi si spinge in una direzione fortemente repressiva verso chiunque provi ad alzare la voce contro ciò che accade in Palestina e non solo. Generalizzare il clima di lotta e ampliarne l’organizzazione è l’unica arma che si può mettere in campo.
Di fronte a questa necessità, la chiarezza nelle rivendicazioni è un punto fermo. Come è stato fatto anche in altre università italiane, i punti inamovibili che derivano dagli studenti restano almeno due. In primis l’abolizione dei rapporti tra le università e le industrie belliche. Questo genere di legami, strutturali ormai in praticamente tutti gli Atenei italiani, si traduce in una sottomissione crescente di didattica e ricerca agli interessi di colossi delle armi come Leonardo, i cui sistemi d’arma vengono messi al servizio della NATO e più nello specifico vengono venduti a paesi come Israele per bombardare la popolazione palestinese tra Gaza e Cisgiordania.
Da un lato si viene indirizzati verso tirocini in questi colossi delle armi, dall’altro gli vengono riservati sempre più spazi nella gestione della didattica e, non in ultimo, si sottomette la ricerca di alcuni dipartimenti alle loro esigenze di produzione, che si traducono sostanzialmente nel sovvenzionare i piani imperialisti dei vari governi e alleanze a danno di popolazioni oppresse come quella palestinese. Altro aspetto da denunciare sono i rapporti con le università israeliane organizzando progetti comuni, seminari, convegni e progetti di ricerca. Questo genere di legami va non solo ad accettare, ma ad alimentare ideologicamente l’apartheid e il genocidio portato avanti dello Stato di Israele contro i palestinesi. Pretendere l’interruzione di ogni legame e progetto con aziende belliche e università israeliane, in questo senso, vuol dire denunciare la complicità delle nostre università nel massacro in atto. Pretendere l’interruzione di simili legami, in ultima istanza, rappresenta un passo concreto per impedire che altro sangue venga versato in nome del profitto e degli interessi di pochi.
Per dare seguito a tutto ciò, bisogna però continuare ad alimentare la mobilitazione in ogni luogo di studio e di lavoro, a fianco del popolo palestinese. Bisogna ampliare gli sforzi per fornire a sempre più studenti gli strumenti per organizzare la propria rabbia e indignazione, per canalizzarne le energie in un percorso di lotta che metta concretamente in discussione la complicità dei nostri atenei nel genocidio in atto.
Ogni dipartimento, ogni facoltà, ogni biblioteca può e deve diventare un luogo per inchiodare alle proprie responsabilità le istituzioni accademiche: essere alla guida di questi processi è un dovere non rimandabile. Denunciare quanto accaduto a Firenze, in questo senso, rappresenta un passo fondamentale per rilanciare questa lotta con ancora più consapevolezza. Gli studenti e le studentesse fiorentine sono pronte a tornare a dare battaglia dopo le cariche e le menzogne il 29 novembre, in occasione del Consiglio d’Amministrazione dell’UniFi, ribadendo una volta di più che la guerra deve restare fuori dall’università!