di Paolo Spena
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La Linke tedesca ha scelto di schierarsi per il riarmo della Germania. Sarà forse il momento di riaprire un dibattito franco sulla “sinistra radicale”, che tanti compagni ancora identificano come l’orizzonte politico per i comunisti nell’Europa del 21° secolo? Un articolo per riflettere e discutere.
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La storia a volte si ripete. In Germania la storica riforma della costituzione necessaria al riarmo militare viene approvata anche grazie alla Linke, cioè a uno dei partiti più importanti del Partito della Sinistra Europea. Il dibattito a sinistra in Italia è stato stimolato nella scorsa settimana da un articolo di Varoufakis, che molti compagni hanno rilanciato e condiviso sui social. Sostanzialmente una “scomunica” alla Linke, che chiama in causa anche le posizioni timide sulla Palestina e accusa quel partito di volersi accreditare come una forza “rispettabile” nei confronti del “centro” guerrafondaio dell’asse politico tedesco.
Ci sono eventi che nel dibattito politico svolgono la funzione di un sasso tirato nello stagno: smuovere le acque. Questo è potenzialmente uno di questi. L’analogia tra la condotta della Linke e il voto in favore dei crediti di guerra da parte della socialdemocrazia nella Prima Guerra Mondiale è in effetti troppo forte per ignorarla.
Personalmente non sono affatto sorpreso della scelta della Linke, per ragioni che dirò a breve. Ma mi rendo conto benissimo che i “l’avevamo detto” sono poco utili e quindi proverò a dire qualcosa di più sensato.
Mi sembra che, nel prendere atto di ciò che non è più ignorabile, si resti impantanati in una critica di media portata, che si sviluppa intorno al “tradimento” della Linke senza mettere in discussione nessuno dei presupposti che, a mio avviso inevitabilmente, lo hanno prodotto.
Senza girarci attorno, ciò di cui sento la mancanza è proprio la critica comunista che andrebbe rivolta all’insieme di tutti i partiti della sinistra “radicale”, cioè a quell’opzione politica in quanto tale. Si continua invece a criticare la singola scelta mentre si ripropone quello stesso progetto, come se dopo 21 anni dalla nascita del Partito della Sinistra Europea e dopo le numerose esperienze di governo in diversi paesi d’Europa non ci sia già materiale sufficiente a trarre un bilancio.
Partiamo dal richiamare alcuni fatti.
La riforma approvata in Germania modifica il vincolo del “freno al debito” introdotto nella costituzione tedesca nel 2009, secondo cui il debito pubblico annuale non può eccedere lo 0,35% del PIL. A seguito della sua approvazione, sono esentate dal vincolo le spese militari superiori all’1% del PIL (circa 45 miliardi di euro all’anno). Come tutte le riforme costituzionali in Germania, era necessaria l’approvazione con voto a maggioranza dei 2/3 in entrambe le Camere, cioè il Bundestag (l’equivalente della nostra Camera dei Deputati) e il Bundesrat, che rappresenta i Länder, cioè gli Stati federati.
La Linke aveva il potere di bloccare la riforma nel Bundesrat imponendo l’astensione degli Stati in cui è parte della coalizione di governo (Meclemburgo-Pomerania Anteriore e Brema). Quando si parla di “imporre”, va precisato, non si parla delle procedure di espressione del voto nel Bundesrat, ma del piano puramente politico della questione. La guerra sarebbe una discriminante sufficiente per essere parte o meno di una coalizione di governo, ad esempio. Bloccare quella riforma sarebbe stato un colpo durissimo ai guerrafondai, dalla portata simbolica enorme se si pensa che sarebbe avvenuto nel paese perno dell’UE, la Germania di Ursula Von der Leyen. La Linke avrebbe potuto; ha scelto di non farlo. La riforma, e questo è il dato politico, passa grazie alla Linke.
Quello sopra riportato è ovviamente un caso da manuale di condotta opportunista all’interno nelle istituzioni: un partito “progressista” che si allinea con le strategie fondamentali del grande capitale del proprio paese.
Verrebbe tuttavia da avanzare una semplice domanda: le altre forze della sinistra “radicale” in Europa, che tanti compagni e tante sigle in Italia prendono ancora a riferimento, si comportano davvero diversamente? Basterebbe una piccola rassegna essenziale ma significativa. In Grecia, il governo di SYRIZA è stato non solo il governo che ha imposto il terzo memorandum della BCE al costo di enormi sofferenze per il popolo greco, ma anche il governo del rafforzamento della cooperazione della Grecia con la NATO, con la volontà di affermarsi come principale alleato degli Stati Uniti nei Balcani (strategia che oggi viene portata avanti dal governo conservatore di Nuova Democrazia). In Spagna, Unidas Podemos (coalizione di Podemos e Izquierda Unida) prima e Sumar poi sono state parte – esprimendo i propri ministri – del governo socialdemocratico in un paese della NATO che compartecipa alla guerra imperialista in Ucraina, con l’invio di armi e il sostegno al regime di Kiev. In Portogallo, altro paese della NATO, il Bloco de Esquerda ha sostenuto con i propri voti il governo di minoranza del centro-sinistra. In Francia, Mélenchon si esprime a favore delle sanzioni alla Russia. Si potrebbe continuare.
Qual è il dato che emerge? A mio avviso è il seguente: in ogni paese, le forze della cosiddetta “sinistra radicale” si confermano pienamente disponibili a compartecipare alla gestione del potere capitalistico, se non ad assumersene la piena responsabilità. E nel fare questo, si dimostrano compatibili con gli indirizzi strategici delle oligarchie finanziarie del proprio paese, tanto sul piano domestico, quanto sul piano della politica internazionale. Tanto più si avvicinano al governo, tanto più le posizioni maggiormente radicaleggianti degli albori vengono “normalizzate” e smussate. Avviene ed è avvenuto sistematicamente. Non potrebbe essere altrimenti, perché chiunque si candidi ad amministrare questo sistema, può farlo solo nel solco che il sistema stesso impone a chi governa, e in questo vincolo sfuma l’illusione di poterlo governare “in favore del popolo”.
Quali valutazioni trarne? È ovviamente oggetto di dibattito, ma credo che si possano avanzare un paio di tesi, che riporterò in forma semplificata e non esaustiva.
La prima è che la sinistra “radicale” europea del nostro tempo è, in sostanza, una moderna socialdemocrazia, che tra l’altro non si esprime nella forma dei partiti operai di massa novecenteschi ma nella forma “postmoderna” dei partiti liquidi elettorali. Viene definita “radicale” in virtù della sua rinnovata vocazione socialdemocratica, mentre l’asse politico in tutti i paesi si sposta a destra e i partiti socialdemocratici “storici” diventano, come il PD, dei partiti liberal-democratici che non provano più neanche per sbaglio a presentarsi come riferimento per i lavoratori. Proprio come le socialdemocrazie di cento anni fa, quando suona il fischietto, i suoi aspiranti eredi votano i crediti di guerra.
La seconda, correlata alla prima ma con implicazioni non scontate, è che una proposta comunista nel nostro tempo può esistere solo se è irriducibile a tutte le forze del sistema politico borghese, nel quale va compresa la cosiddetta sinistra “radicale”. Un chiarimento è necessario su questo secondo punto, perché mi sembra che oggi la discussione venga banalizzata come una mera questione tattica riguardo le alleanze (proporci alle elezioni da soli o costruire una “alleanza di sinistra”?) mentre si lascia sullo sfondo un nodo strategico grande come una casa, che riguarda la natura stessa di una forza politica.
Chi scrive sa benissimo che il problema di come riaprire una prospettiva comunista nel 21° secolo è un problema molto serio e complicato. Non c’è volontà di banalizzarlo risolvendolo con facili proclami “rivoluzionari” buoni per tutto, che sono tanto rassicuranti quanto innocui, se manca una riflessione strategica seria. Voglio tenermi distante da questo approccio tipico di certe tradizioni “gruppettare”, così come da quello “trombone” di chi intende la difesa di un’identità comunista come mero attaccamento a un nome o di una simbologia. Tolto tutto questo, però, resta un problema di sostanza. Essere comunisti vuol dire essere la forza “più a sinistra” del sistema politico borghese? O la “forza più a sinistra” in un’alleanza radicale? A mio avviso la risposta a entrambe è un deciso NO.
Essere comunisti nel 21° secolo vuol dire interrogarsi su come si possa tenere aperta oggi la prospettiva dell’abbattimento-superamento del capitalismo attraverso la presa del potere politico da parte dei lavoratori. Il movimento operaio del Novecento ci ha provato davvero, e lo aveva fatto davvero, scrivendo un’epopea di emancipazione umana e di conquiste che hanno segnato la storia dell’umanità. Per ora, è finita con una sconfitta e il capitalismo ha vinto. Anche per questo è una questione seria e una sfida vera, che deve tenere insieme un bilancio di cosa è successo, una strategia su come muoversi per il futuro, la ricostruzione di una cultura politica diffusa. I tempi sarebbero maturi per ripartire da questa riflessione collettiva, invece di ostinarsi a cercare scorciatoie elettorali o operazioni politiche che facciano da trampolino per altro.
Il tempo è poco, perché il capitalismo marcia verso la guerra, e ogni giorno che passa in cui si gioca alle alchimie elettorali senza muovere passi avanti nella riorganizzazione di una grande forza comunista in Italia è un giorno in più in cui il nostro popolo resta “disarmato”, dinanzi al grande riarmo dei padroni che oggi banchettano sul nostro sudore e che sono disposti a banchettare anche sul nostro sangue. Prima ci lasciamo alle spalle le illusioni dell’opportunismo, meglio sarà.