di Alessandro Malvezzi
Il 14 ottobre 1944 le truppe fasciste della Repubblica di Salò entravano in una Domodossola deserta. Era la fine della Repubblica partigiana dell’Ossola. Dal 10 settembre di quell’anno, tra le valli che separano il Piemonte dal Ticino e il Vallese, i partigiani avevano dato vita ad uno dei più importanti esperimenti politici della storia del nostro paese, vinto con il sangue della migliore Italia dopo anni di giogo fascista. La repubblica comprendeva 32 comuni, per un totale di ottantamila persone e milleseicento chilometri quadrati di territorio libero. Fu ben più di una semplice zona sgomberata dai fascisti con la forza militare: fu un esempio fulgido dell’anima politica e popolare della Resistenza italiana.
Scrivono Pietro Secchia (figura chiave del PCI di cui fu responsabile dell’organizzazione dal 1946 al 1954 e vice comandante delle Brigate Garibaldi) e Cino Moscatelli (importante capo partigiano delle Brigate Garibaldi): “La resistenza italiana non fu soltanto lotta armata, lotta militare, ma una nuova democrazia che sorgeva dal basso nell’organizzazione della vita dei reparti partigiani”1. Quest’organizzazione ha abbracciato una miriade di ambiti: dai CLN locali, ai comitati di fabbrica, e, in modo veramente manifesto, perché posto in atto nel governo del suolo liberato, la “direzione democratica delle zone libere”2. La resistenza insomma non fu un fenomeno strettamente militare, ma l’opera viva di tutta una classe e diversi settori della società italiana che si mossero con una nuova idea di società nel cuore. Poche pagine della storia di quegli anni dipingono questa faccia della resistenza così chiaramente.
La zona libera si dotò non solo di complessi sistemi di approvvigionamento e ordinaria amministrazione: produsse un’autentica democrazia, programmi per le scuole scevri dell’influenza fascista, un’università popolare e una riorganizzazione di sindacati e commissioni di fabbrica. Trattare questi avvenimenti e riscoprire l’anima politica e positiva della lotta partigiana significa combattere riduzionismi e mistificazioni che piagano l’immagine della Resistenza nel presente. In particolare, recuperare il ruolo di protagonismo che in questa storia hanno giocato la classe operaia e il PCI come sua avanguardia ci mette nella posizione di criticare tanto chi infanga i partigiani facendoli passare per “briganti”, quanto chi più subdolamente riduce l’antifascismo al senso civico.
Le parole di Secchia e Moscatelli, anche a decenni di distanza, suonano attuali: “I ceti conservatori tentano oggi di presentare una resistenza senza principi, senza un programma, senza bandiera, tutt’al più come un movimento «legittimista» […]. Presentare così i fatti significa deformarli, negare la realtà, falsare la storia.”3 Ieri come oggi, di fronte ai tentativi di sterilizzare l’eredità della lotta partigiana da parte di quella classe che apriva le porte ai tedeschi mentre professava nei salotti il più molle antifascismo di convenienza, sta ai comunisti ricordare che “l’esercito partigiano non fu creato da nessuno degli organi dello stato, da nessuna autorità governativa o «alleata», sorse per iniziativa soprattutto degli uomini di avanguardia della classe operaia, dell’antifascismo militante e dei loro partiti”4.
Nei mesi precedenti alla liberazione di Domodossola -nell’estate del 1944- il fascismo in Italia era in seria difficoltà: gli alleati stavano risalendo lo stivale e le formazioni dei partigiani erano sempre più numerose ed efficaci. Il tentativo di estirpare integralmente la resistenza tramite i rastrellamenti non aveva dato i suoi frutti e capitava ormai abitualmente che dove i partigiani riuscivano ad attaccare sistematicamente i presidi dei nazifascisti, questi ultimi perdessero il controllo stabile di vasti territori. Il paese, vedendo il fascismo agonizzare, si era convinto dell’imminenza della liberazione; il crollo della linea contro gli alleati sembrava dietro l’angolo e i giovani, soprattutto operai e braccianti, salivano a centinaia sui monti per fuggire alla leva.
È così che alla guerra di liberazione italiana si impose un cambio di strategia e venne a costituirsi la forma di lotta che ha partorito la Repubblica dell’Ossola: alle azioni di semplice sabotaggio e alle imboscate si affiancò la prospettiva della liberazione effettiva del paese tramite un’azione insurrezionale su vasta scala. Le proporzioni stesse del movimento partigiano e la volontà di lottare diffusa in quella classe operaia che era la spina dorsale dei distaccamenti, risvegliata dalla prospettiva dell’insurrezione generale, scalzarono l’attendismo dei capitani più arretrati e portarono al sorgere di tutta una serie di zone libere nel centro e Nord Italia. Tra queste le più estese, che poterono dotarsi di una amministrazione propria, sono note alla storia come repubbliche partigiane.
L’obiettivo della liberazione del paese ormai era tangibile, ma restava da scongiurare le possibilità che questa liberazione prendesse la forma di un semplice passaggio di testimone nella continuità del vecchio apparato monarchico fascista e borghese, che avrebbe lasciato intatto il potere di quei settori che avevano creato e sostenuto il fascismo in Italia. In questa prospettiva il peso delle insurrezioni era considerato determinante dal PCI. Doveva essere il fronte antifascista dei lavoratori e dei loro partiti più avanzati a liberare il paese per evitare, per parafrasare Tomasi, che tutto cambiasse perché tutto rimanesse com’era.
Si legge nelle direttive date da Togliatti il 6 giugno 1944 che anche il PCI si era convinto che i tempi fossero maturi: “ linea generale del partito nel momento presente: insurrezione generale del popolo in tutte le regioni occupate, per la liberazione del paese e lo schiacciamento dei traditori fascisti”5.
Agli occhi del partito la liberazione avrebbe dovuto appoggiarsi, oltre che sulle insurrezioni delle grandi città, anche sull’espansione e sull’utilizzo delle zone libere come teste di ponte per l’insurrezione generale. Come vedremo però, il parziale consolidamento del fronte italiano e la fine della prospettiva della liberazione dietro l’angolo, segnarono la sorte di questi esperimenti di cui la Repubblica dell’Ossola fu il caso più famoso, ma certamente non l’unico degno di nota.
L’OSSOLA
Già prima di partorire la Repubblica la lotta partigiana in Ossola ha rappresentato una spina nel fianco dei nazifascisti. Il triangolo montuoso che interessò e le piccole città ai suoi piedi erano di significativa importanza strategica. Attraverso l’Ossola passa la ferrovia del Sempione, una delle ferrovie internazionali più importanti del paese per scopi sia civili che militari, che da Domodossola porta alla Svizzera. La lotta di liberazione tagliò questo collegamento più volte e per lunghi periodi, il che costrinse i nazisti, che scarrozzavano per quella via armamenti e truppe d’occupazione, ad un dispendioso uso di scorte e blindati o al dirottamento per vie più sicure. Inoltre, disseminate tra le valli si trovavano un gran numero di centrali idroelettriche di importanza strategica per il regime e si trattava di una zona industrializzata, la cui produzione era stata parzialmente convertita all’uso bellico. La perdita di questo territorio e le difficoltà che già prima i partigiani imponevano al suo sfruttamento da parte dei fascisti ebbero un peso significativo.
Insomma, la guerra di liberazione per queste valli ebbe un forte significato politico, fu importante in quanto specchio di una volontà popolare democratica che risvegliava il paese dal suo torpore, ma allo stesso tempo ebbe anche un serio peso militare strategico, fosse anche solo per il massiccio quantitativo di truppe che costrinse gli occupanti a disimpegnare dal fronte.
Anche morfologicamente l’Ossola si prestava allo sviluppo di un movimento partigiano: i facili valichi per la Svizzera richiamavano numerosi perseguitati politici e razziali, mentre le valli secondarie aperte a ventaglio sulla piana del Toce offrivano un’ottima base per la guerriglia partigiana e una via aperta per la Pianura Padana. Per questo Ossola Cusio e Verbano erano zone di vivo interesse nella prospettiva di una insurrezione generale, al punto che il comandante della missione inglese a Lugano John McCaffery discusse con il CNLAI la liberazione dell’Ossola e la sua preparazione a ricevere ingenti aviosbarchi di truppe proprio in quest’ottica.
In questa terra il fascismo non aveva mai trovato terreno fertile, non aveva fatto presa sulla gente del luogo, dai montanari agli operai di fabbrica. Si era guadagnato il disprezzo degli abitanti delle valli vietando la pratica secolare dell’emigrazione per lavoro, richiedendo leve per la sua guerra e dando o poco nulla in cambio. Tra gli operai poi questo sentimento era ancor più presente: non a caso il primo episodio di resistenza armata dopo l’8 settembre fu organizzato autonomamente dagli operai di Villadossola. Già il 28 ottobre avevano strappato nella notte le bandiere repubblichine poste a commemorare la marcia su Roma, e poco dopo organizzavano la lotta agli occupanti. Nel Verbano furono gli stessi tedeschi a chiarire definitivamente le idee con le loro atrocità: subito dopo il loro arrivo le SS trucidarono a Baveno 14 ebrei, tra cui un’intera famiglia. Gettarono i cadaveri nel Lago Maggiore dove pochi giorni dopo sarebbero tornati a galla sotto gli occhi increduli dei locali.
A questo sentimento antifascista seguì rapidamente una forma più consistente di attivazione: a Verbania e a Domodossola, i centri urbani più importanti della zona, si formarono i CLN. In principio essi furono perlopiù indipendenti da affiliazioni partitiche, anche se soprattutto Domodossola aveva una certa inclinazione socialista. In Ossola la presenza dei partiti antifascisti nelle prime fasi della resistenza fu particolarmente debole: il PCI ad esempio, mentre manteneva una presenza non indifferente nei piccoli centri industriali di Omegna e Villadossola, aveva scarsa presa nella più importante città operaia, Verbania, per ragioni che risalivano addirittura al congresso di Livorno. Fu veramente esemplare come, nel giro di un anno, la efficace combinazione dell’attività partigiana garibaldina e del lavoro del partito con sindacati e operai, fece del PCI la realtà di punta incontestata della lotta al fascismo, mentre gli indipendenti, sotto l’influenza del comando alleato e della destra del CLN, persero sempre più importanza.
La migliore organizzazione militare dei garibaldini fu un fattore determinante in questo successo: in Spagna i loro comandanti avevano fatto esperienza della guerra moderna, e rimanendo in Italia durante il fascismo si erano fatti esperti nell’attività clandestina. L’altro vantaggio dei comunisti stava nel loro stretto rapporto con gli operai, che supportavano nelle loro lotte e nei loro scioperi e che a loro volta, comprendendo il significato politico della resistenza, assistevano i partigiani e si univano a schiere nelle file dei garibaldini. Nell’Ossola e nel vercellese i partigiani erano per il 76,2% braccianti ed operai, per il 12% studenti 6.
LE PRIME ATTIVITÀ PARTIGIANE E IL SUPERAMENTO DELL’ATTENDISMO
Nei suoi primi passi la lotta partigiana in Ossola non era però né strategicamente né politicamente avanzata. Le bande erano poche e mal armate, si occupavano principalmente di piccoli sabotaggi e di assistere nella fuga in Svizzera i perseguitati dal regime. La più importante di queste prime formazioni fu certamente la Valdossola di Dionigi Superti, un piccolo imprenditore che attraverso la Svizzera era in contatto con rappresentanti del comando alleato da cui non di rado si recava personalmente. La sua concezione della resistenza era perfettamente in linea con i desideri degli inglesi: i partigiani avrebbero dovuto essere semplici riserve d’appoggio militare, aspettare sui monti il momento della liberazione e facilitarne la riuscita; nel frattempo avrebbero fatto meglio a dedicarsi al sabotaggio.
Tra le file del Valdossola però spicca una seconda figura di rilievo: Mario Muneghina, molto più vicino alle vere aspirazioni di chi era salito sui monti a combattere. Il “comandante Mario” era alla testa del sottogruppo “Antonio Gramsci”, che avrebbe poi portato nel campo dei garibaldini. Si posizionò in opposizione al logorante attendismo promosso da Superti ed effettivamente, contro la volontà di quest’ultimo, con o senza la guida diretta di Muneghina, ben presto molti partigiani della Valdossola si diedero a rocambolesche incursioni contro i fascisti, giungendo perfino ad assaltarne i presidi.
D’altronde, nonostante la dirigenza moderata di Superti, il corpo combattente tendeva verso idee socialiste e comuniste, tutto mentre lui, spinto dagli alleati su posizioni prettamente militaristiche, rifiutava ogni accezione politica della lotta partigiana. Che si trattasse di limitare l’influenza di idee comuniste dentro e fuori le fila della sua formazione, più che sincera convinzione apolitica, lo dimostra il fatto che non si fece problemi a stabilire stretti contatti con la Democrazia Cristiana. Nelle parole del tenente colonnello Pieri le contraddizioni del Valdossola sono evidenti al limite dello stridente: “il comandante tende a mantenere un carattere di apoliticità; però maggiori simpatie godono le sinistre: la Democrazia Cristiana è il partito più attivo nella propaganda e negli aiuti”7.
Altra importante formazione “apolitica” fu quella del comandante Alfredo Di Dio, che nonostante i suoi meriti eroici nella lotta al nazifascismo va ricordato anche per il suo anticomunismo, che venne spesso alla luce durante la Repubblica partigiana, come vedremo talvolta con esito farsesco, talvolta tragico. Anche lui, apolitico per convenienza, non disdegnava gli aiuti dei partiti a destra della rosa antifascista. Non tutte le formazioni erano però attendiste, non tutte rifiutavano la natura politica (e la direzione popolare-operaia di questa politica) della guerra partigiana. Accanto al sottogruppo “Antonio Gramsci” crescevano di giorno in giorno la “Giovane Italia” di Guido il Monco e il gruppo “Fanfulla” inviato da Moscatelli, con ciò andando a costituire le fondamenta della seconda divisione Garibaldi “Redi”.
Il movimento partigiano cresceva in fretta, superando le proporzioni modeste su cui si misuravano le tattiche attendiste. Nonostante gli sforzi di alleati e anticomunisti nostrani di allontanare dalla politicizzazione l’attività delle brigate, questi propositi non poterono che sbattere contro le condizioni oggettive. D’altronde nelle parole di Secchia e Moscatelli “la guerra partigiana non è stata fatta da due o tre comandanti in capo sul piano nazionale o da pochi altri dirigenti sul piano regionale e provinciale; essa è stata il risultato dell’irrompere impetuoso delle masse popolari nella grande battaglia per la libertà e l’indipendenza del paese”8.
Le nuove dimensioni delle brigate richiedevano più armi e più rifornimenti; per ottenerli l’unico modo era scendere dai monti, lavorare a contatto con la gente e attaccare i presidi fascisti. Le leve fresche poi sentivano fortemente l’urgenza di cacciare in combattimento diretto gli occupanti. Ne conseguì un susseguirsi azioni sempre più ardite, capitò ad esempio che una pattuglia di repubblichini lasciasse scritto nei pressi di Cossogno: “uomini della montagna, se non avete paura vi aspettiamo giù a Fondotoce”. Il 30 maggio una trentina di partigiani raccolse la sfida mettendo l’importante presidio della cittadina a ferro e fuoco. Vennero fatti prigionieri 45 fascisti, rimasero a terra quattro corpi di cui due ufficiali, tutti nemici. I partigiani ebbero un solo ferito.
L’intensificazione dell’attività militare non fu però l’unica direttrice di cambiamento: si andò sviluppando un importante salto di qualità politico nella forma di sempre più consistenti rapporti tra operai e partigiani.
GLI SCIOPERI DEL 1944
Nel marzo 1944 il comitato di agitazione Piemonte Lombardia e Liguria, formazione animata dal PCI e dal PSIUP proclamava lo sciopero generale. Gli scioperi che da marzo in avanti segnarono il paese furono innanzitutto il prodotto dell’impegno del PCI nell’organizzare, attivare e politicizzare il malcontento antifascista che con sempre più vigore prendeva piede nelle fabbriche. L’azione combinata delle masse operaie e dei partigiani mise gli occupanti con le spalle al muro: in un momento in cui si organizzavano rastrellamenti e controffensive sui monti le truppe dovettero essere richiamate a gestire la situazione nelle fabbriche, la produzione bellica tirò il freno e i piani di trasferire macchinari ed operai “al sicuro” in Germania trovarono fiera opposizione. Un altro effetto degli scioperi di marzo fu di smascherare quel folto gruppo di industriali che, fiutata ormai da tempo la fine del regime, cercavano di darsi un futuro millantando un antifascismo di convenienza.
La lotta al fascismo era lotta di classe, degli sfruttati contro quei settori reazionari che, di fronte all’offensiva dei proletari per la propria liberazione, avevano costruito e sostenuto lo stesso sistema da cui ora tentavano di smarcarsi.
La produzione a Milano e Torino rimase paralizzata per otto giorni, due milioni di persone presero parte allo sciopero ed ecco che allora agli industriali l’aiuto dei tedeschi non fu più così sgradito. Tranne pochi casi isolati le delegazioni di scioperanti non furono ricevute e addirittura molti padroni passarono ai tedeschi le liste dai partecipanti alle manifestazioni. Gappisti e partigiani presidiavano armati le fabbriche, tenendo comizi di fronte ai lavoratori: sia chi combatteva il fascismo con le armi in pugno, sia chi lo combatteva scioperando ebbe la conferma di non essere solo nella sua lotta.
In Ossola i primi partigiani a prendere parte agli scioperi furono i garibaldini e la Giovane Italia. Per prevenire lo sciopero, che si prevedeva la forte presenza partigiana avrebbe reso ingestibile, molte fabbriche misero preventivamente “in ferie” i loro dipendenti ma dove questo non avvenne, come ad Omegna, lo sciopero fu un pieno successo. In quel momento le organizzazioni operaie erano poche e clandestine, per la gran parte gestite dal PCI, ma non tardarono a rafforzarsi: l’azione del partito coordinò nuove strutture più ampie e permanenti e dove i comunisti erano abbastanza in forze nacquero perfino comitati sindacali. In Ossola e Verbano le mobilitazioni continuarono fino ad aprile, prendendo sempre più una forma politica dietro la facciata economicista. A maggio ai cancelli delle fabbriche di Intra e Trobaso sono spesso presenti squadre di partigiani in armi che “accolti con entusiasmo, gettano tutto il peso della loro presenza in appoggio alle rivendicazioni operaie, qualificandole e lasciando nello smarrimento i dirigenti industriali che, sempre più restii a rivolgersi alle autorità fasciste, cercano disperatamente appoggi sull’altra sponda”9.
IL RASTRELLAMENTO IN VALGRANDE
In tutta Italia il peso della lotta di liberazione cominciava a farsi sentire sull’operato della macchina da guerra nazifascista. Di fronte a queste difficoltà i fascisti dovettero occupare sempre più forze nel contrasto al movimento partigiano: c’era bisogno di spezzare la resistenza con un colpo definitivo dove questa costituiva un maggiore pericolo. Il primo di quella che fu una serie di massacri su vasta scala nell’estate del 1944 avvenne proprio in Ossola. Un imponente rastrellamento investì la Valgrande, dove si era posizionata la formazione di Superti, e le vallate circostanti. Tra reparti di ex prigionieri georgiani e mongoli, SS Alpenjäger, SS italiane e battaglioni della guardia nazionale repubblicana furono mobilitati dai 16.000 ai 20.000 soldati, supportati da artiglieria pesante.
Investiti da quest’urto travolgente un numero considerevole di partigiani finì per disperdersi e in molti sconfinarono in Svizzera. Persero la vita 300 patrioti, una quantità ingente dei quali fu pubblicamente fucilata nei giorni successivi. Il 20 giugno 44 prigionieri furono costretti a sfilare per Verbania portando un cartello recante la scritta “sono questi liberatori d’Italia, oppure sono i banditi?”. Tra di loro c’è Cleonice Tommasetti, incinta di quattro mesi. In seguito vennero fucilati a Fondotoce a tre a tre, dopo una notte di feroci pestaggi e torture. Questa furiosa escalation di violenza, che voleva essere risolutiva, fallì nel suo intento e nel giro di poche settimane l’attività partigiana stava di nuovo aumentando di ritmo e magnitudine. In particolare i garibaldini crebbero rapidamente, guadagnandosi una posizione sempre più di primo piano.
“Il nemico […] si ritrovava disorientato e sgomento di fronte a questi partigiani invisibili ed inafferrabili che riteneva di aver colpito a morte, liquidati alcune settimane prima, e che risorgevano come per incanto attaccando dappertutto, nei momenti più impensati, nei fortilizi ritenuti più sicuri, che osavano scendere perfino nelle città”10.
Ben presto i fascisti si trovarono di nuovo alle strette: già da metà luglio le continue azioni stavano logorando i presidi dei fascisti, che non potevano essere rinforzati e ricostituiti al ritmo con il quale venivano incalzati dai partigiani; il tutto mentre questi ultimi strappavano il controllo di sempre più valli e tratte ferroviarie agli occupanti. Il risultato di questi sviluppi non coordinati fu entro agosto l’interruzione del traffico attraverso il Sempione. In tutta la bassa Ossola poi restavano in piedi i soli presidi di Gravellona, Villadossola e Piedimulera.
I garibaldini iniziarono anche ad operare sui monti più a nord: nel giro di due settimane 34 partigiani liberarono la Val Formazza e costrinsero alla fuga il presidio di Baceno che credeva di aver a che fare con centinaia di nemici. Agivano allora in tutta Ossola circa 4000 partigiani, di cui le Brigate Garibaldi erano il gruppo più numericamente esteso e qualitativamente avanzato. Ormai bastava un’ultima spinta a far crollare il castello di carte dell’occupazione e aprire le porte alla liberazione della regione, nonostante questo non fosse un obiettivo prefissato. Lo stesso Di Dio, alla vigilia della presa di Domodossola, quando gli fu chiesto se intendeva mantenere stabilmente il controllo della città si espresse così: “non so cosa faremo, a noi servono piuttosto le armi e il materiale che ci lasceranno”11.
In effetti, scrive Piero Malvestiti, la zona libera “non fu preparata da politici pensosi e da guerrieri lungimiranti; non entrò in nessuna combinazione diplomatica e in nessun piano di guerra”12, fu piuttosto frutto dello sviluppo organico delle singole azioni della guerra partigiana.
Tra il sette e l’otto settembre il presidio di Piedimulera fu costretto alla fuga trascinando con sé quello di Villadossola. Domodossola era scoperta e il nove settembre fu liberata dalle forze partigiane. Il giorno dopo Superti per decreto pubblico proclamò la formazione di una giunta provvisoria di governo, dando inizio alla Repubblica partigiana dell’Ossola.
LA LIBERAZIONE E LE PRIME CONTRADDIZIONI
La liberazione di Domodossola e le grandi azioni che la precedettero segnarono un cambio di marcia radicale: sul piano militare la guerriglia si trasformò in guerra vera e propria e immediatamente sul piano politico le contraddizioni interne al fronte antifascista si fecero manifeste. Queste due svolte, militare e politica, fecero sentire il loro peso già dalla stessa liberazione di Domodossola.
In città era presente un presidio di 600 tra fascisti e tedeschi, senza confrontarsi con i garibaldini Di Dio e Superti presero l’avventata decisione di permettere a questi di fuggire, i nazisti con i loro mezzi e le loro armi ancora in pugno. Per di più, invece di farli sconfinare in Svizzera, fu loro concesso di allontanarsi verso Sud. Si permise a questa forza di piombare alle spalle dei partigiani che, nel frattempo, avevano ingaggiato un feroce combattimento a Gravellona avendone riconosciuta l’importanza strategica in quanto crocevia ferroviario e più importante snodo stradale alla bocca della Val d’Ossola. La battaglia infuriò per più giorni ma, complice una debilitante disorganizzazione e l’arrivo dei fuggiaschi da Domodossola, l’offensiva finì per spezzarsi lasciando il paese in mano nemica.
Questa mancanza di considerazione per la voce dei garibaldini non fu un incidente isolato. La stessa nascita della giunta provvisoria confermò una volontà -soprattutto da parte dei comandanti Di Dio e Superti- di marginalizzare l’influenza dei comunisti nonostante, fossero la fazione più consistente tanto nel lavoro militare quanto nel lavoro politico. La giunta fu chiamata senza alcun confronto né con la popolazione né con le altre fazioni del campo partigiano. Allo stesso modo venne istituito un comando militare composto dalle sole Valtoce e Valdossola. Solo con l’arrivo delle direttive del CLNAI un sistema autenticamente democratico avrebbe iniziato a prendere forma.
Questo non vuol dire che il sentimento anticomunista avesse cessato di essere presente e manifestarsi da parte soprattutto degli “indipendenti”. Si tentò ad esempio di impedire che Moscatelli tenesse un comizio davanti alla popolazione e in un’altra occasione -quasi macchiettistica- Di Dio fece addirittura sequestrare una partita di carta da stampa per il giornale della giunta semplicemente perché di colore rosso.
L’AMMINISTRAZIONE E IL RUOLO DEL POPOLO NELLA ZONA LIBERA
Nel frattempo, però, il territorio liberato doveva riorganizzarsi ed essere amministrato. Nella zona liberata si venne a creare un piccolo scorcio di Italia antifascista. Non solo la giunta si trovò a deliberare sui temi più variegati e politicamente fecondi, ma anche le masse popolari presero iniziativa e assunsero un ruolo di protagonismo sorprendente.
Subito dopo la liberazione si costituirono, con l’importante contributo del PCI, tutta una serie di organizzazioni popolari: i Gruppi di difesa della donna, l’Unione delle donne italiane, il Fronte della gioventù e le camere del lavoro di Domodossola e Villadossola. I lavoratori tornano ad organizzarsi anche sul posto di lavoro. Vennero democraticamente rinnovate le commissioni interne di fabbrica mentre poterono finalmente rinascere alla luce del sole le organizzazioni sindacali, che presto si mossero per ottenere dalla direzione delle aziende ancora in attività migliori condizioni di lavoro.
Il lavoro della giunta fu anch’esso importante. Con il rimodellamento voluto dal CLNAI, per meglio rappresentare i partiti del fronte antifascista, ne facevano ora parte un rappresentante per il Partito Socialista, uno per il Partito d’Azione, uno per la Democrazia Cristiana e due per il PCI, tra cui Gisella Floreanini, unica donna della giunta e prima donna nella storia moderna del paese a ricoprire una paritaria funzione di governo. Nonostante le difficoltà il PCI poté portare in un contesto democratico-popolare la prospettiva comunista in discussioni di grande incisività politica, come l’approccio all’istruzione, ai sindacati e al posto delle masse popolari nello Stato.
Il primo e più pressante problema fu quello degli approvvigionamenti: l’Ossola non era autosufficiente rispetto alla produzione di cibo. Tramite accordi con la Svizzera, appoggiandosi alla Croce Rossa, venne assicurato un carico giornaliero di 20 tonnellate di patate. Più avanti, sempre dalla Svizzera, ci si procurò ulteriori forniture alimentari in cambio delle giacenze, abbandonate nei magazzini industriali, di prodotti come pirite e cloro liquido. Fu istituito un corpo di polizia e una commissione che gestisse i fascisti rimasti sul territorio. Non si arrivò a completare l’istituzione di un sistema giudiziario, sebbene si fosse iniziato a stenderne le fondamenta, ma nel mentre la gestione di questi ambiti fu affidata al socialista e futuro ministro del lavoro Ezio Vigorelli, il quale, nonostante avesse perso due figli nel recente rastrellamento in Val Grande, non permise vendette e fucilazioni.
Si istituì addirittura un nuovo programma scolastico che allontanasse le influenze fasciste dalla formazione dei giovani e un’università popolare iniziò a tenere il suo primo ciclo di lezioni.
La concentrazione di questi molteplici traguardi in poco più di un mese rende l’immagine di una società in viva effervescenza, che dopo vent’anni aveva rimosso il macigno che le impediva di respirare. Ma insieme all’emissione di francobolli e giornali, tra gli impieghi della Repubblica dell’ Ossola figura la produzione di esplosivi. L’attacco dei fascisti, era chiaro a tutti, non avrebbe tardato a venire.
LA FINE DELLA REPUBBLICA DELL’OSSOLA E IL RUOLO DEGLI ALLEATI
Senza Gravellona la posizione dell’Ossola non era ben difendibile, e l’armata partigiana era composta ormai per la gran parte da leve prive di esperienza militare. La defezione di alcuni reparti di prigionieri georgiani dalla parte della resistenza e quel che era stato abbandonato dai presidi fascisti forniva sì una certa quantità di armamenti -dai fucili alle mitragliatrici fino ad alcuni mortai e cannoni- ma in questo campo lo svantaggio rispetto al nemico restava abissale. La guerra di posizione non era mai stato un orizzonte dell’attività partigiana.
Fino ad allora non era mai stato nelle intenzioni dei partigiani combattere una guerra che sostituisse all’autorità fascista la propria in itinere: se in una valle poco difesa le roccaforti dei fascisti si ritrovavano costrette a ritirarsi capitava che sorgesse la tentazione di impedire ai presidi di ritornare, “che è, alla fin fine, una sopravvalutazione di se stessi e una sottovalutazione dei fascisti”13. Tanto, pensava il partigiano, “al primo contrattacco ci si ritira e le cose tornano come prima, e questo è il peggio che può succedere”14.
Se nell’Ossola le cose andarono diversamente e si decise di restare a combattere per difendere la zona libera non fu solo per la dimensione e l’importanza strategica del territorio liberato, ma soprattutto per il significato politico speciale di quello che stava succedendo tra quelle valli. In Ossola c’era separazione tra governo civile e organizzazione militare, e questo governo civile era l’immagine concreta di un futuro oltre il fascismo.
“Per noi la cosa fu molto semplice”, dice Gino Vermicelli, quadro comunista e partigiano che visse di persona quegli eventi, “c’era un governo, era un governo nostro, democratico, e non si poteva lasciarlo da solo. Per cui decidemmo di difendere l’Ossola”15.
Ma le speranze di vittoria erano poche e l’abbandono da parte degli alleati di ogni parola data segnò il destino della zona libera. Gli alleati hanno giocato un ruolo importante nella resistenza in Ossola: la vicinanza al confine svizzero comportava un contatto con loro ben più agevole che altrove in Italia. Fin da principio ebbero le idee chiare sulla lotta partigiana, come già si è avuto modo di evidenziare: per loro le formazioni sarebbero dovute essere gruppi d’appoggio e sabotaggio militari, senza carattere politico. Per portare avanti questo progetto non si fecero problemi a interferire con le forze partigiane, appoggiando personaggi moderati e borghesi come Superti e Di Dio, o ad esempio facendo pressione per garantire influenza alla minoranza monarchica nella brigata “Piave” a discapito del più numeroso e consolidato gruppo socialista. Preoccupati dall’influenza comunista nel governo e soprattutto nelle forze armate della Repubblica Partigiana dell’Ossola, gli alleati sostanzialmente abbandonarono la zona libera al suo destino.
Nei mesi precedenti si erano spesi numerose volte in promesse di ingenti supporti alla causa, vedendovi una possibile testa di ponte per la liberazione della Lombardia. La Repubblica si era perfino dotata di due piste d’atterraggio per rendere possibili ingenti aviosbarchi e lanci. In realtà il supporto fu quasi nullo, nel periodo della Repubblica furono effettuati solo due lanci, ed entrambi vennero indirizzati fuori dall’Ossola, sul Mottarone. Il messaggio era chiaro: i partigiani sarebbero dovuti tornare alle montagne. L’unico a poterne beneficiare, non a caso, fu il moderato e anticomunista Di Dio.
Gli alleati però non si limitarono a negare il proprio aiuto ai partigiani: contattato il governo svizzero si prodigarono perché attraverso il confine non passassero armi. Avevano già intrapreso la strada che portava al proclama Alexander. Con lo stabilizzarsi del fronte sulla linea Gotica e lo sfumare della prospettiva di una liberazione dietro l’angolo, cadeva anche la volontà di supportare dei partigiani troppo vicini a quell’alleato pericoloso che era per inglesi e americani l’Unione Sovietica. Certo, ora si stavano combattendo i nazisti, ma già si sentiva che mantenere la pace con uno stato rivoluzionario che incarnava e promuoveva la vittoria dei proletari contro i propri sfruttatori non era possibile per le potenze imperialiste. Così i nazifascisti, tirato appena il fiato, ebbero modo di prepararsi a schiacciare la Repubblica Partigiana senza troppi ostacoli.
Pur senza subire perdite ingenti i partigiani non poterono resistere all’urto o adattarsi pienamente alla guerra “di fronte”. Un accordo per un comando unificato per la difesa del territorio libero venne raggiunto troppo tardi: gli anticomunisti ne avevano ostacolato a lungo il progetto – che a ragione temevano avrebbe consacrato a testa delle operazioni militari i Garibaldini, militarmente superiori. La resistenza fu strenua e in molti casi stallò a lungo l’avanzata nemica, ma non poteva bastare: i partigiani erano meno di un terzo delle truppe nemiche che l’otto ottobre 1944 diedero il via all’attacco. Il quattordici cadde Domodossola, e poco dopo a Ponte in val Formazza si teneva l’ultima seduta della Giunta Provvisoria. La maggior parte dei monarchici e democristiani, travolti in pieno dalla forza nazifascista, finirono per sbandare e sconfinare in Svizzera. Per il resto della guerra partigiana il peso delle operazioni in Ossola ricadde quasi esclusivamente sulle spalle dei Garibaldini, che la guidarono fino alla liberazione.
CONCLUSIONI
La storia della Repubblica dell’Ossola è la storia delle aspirazioni democratico-popolari di un popolo oppresso. I padroni avevano portato il governo reazionario del fascismo al potere per difendersi dall’eventualità di uno sbocco rivoluzionario della lotta di classe nel paese; le decine di migliaia di giovani che salirono sui monti per scalzarlo ci insegna che, anche di fronte alla reazione più violenta, la storia non può essere fermata. Lo spirito positivo della classe operaia non può essere spento, e nel momento fatale sta alla sua avanguardia il compito di dare a questa classe la forza di spezzare le sue catene.
Il Partito Comunista Italiano dovette lavorare fianco a fianco con chi, dell’Italia libera e della lotta per ottenerla, aveva un’idea ben diversa. In quei mesi la lotta dovette comprendere la collaborazione su un terreno difficile: dalla più aperta ambiguità degli alleati, fino a figure che combatterono sinceramente ed eroicamente il nazifascismo, come Di Dio, ma che non ne concepivano la natura di classe e avevano interessi ben diversi dalle masse lavoratrici. La stessa linea del PCI, abbandonando come orizzonte strategico l’azione rivoluzionaria e concentrandosi sull’abbattere il fascismo attraverso la collaborazione con i liberali e le masse cattoliche, comportò concezioni criticabili della via verso il socialismo.
La sconfitta del regime fascista e l’instaurazione di una democrazia progressiva in una società ancora capitalista era vista ora come una tappa necessaria da raggiungere per poter poi avanzare verso la rivoluzione sociale, piuttosto che come un momento chiave per lavorare, attraverso il processo di liberazione, verso suddetta rivoluzione.
Ma nonostante ciò l’anima viva, attiva, politica della resistenza trovò nel Partito Comunista e nel suo braccio armato un alleato organico, capace di organizzare la resistenza armata al fascismo e fondamentale nel ridare alla classe l’organizzazione che partorì i grandi scioperi del 44, che fece risorgere, in Ossola, le istituzioni operaie e democratiche che il fascismo aveva schiacciato, dentro e fuori le fabbriche.
Per noi comunisti queste pagine della nostra storia servono a ricordarci che, quando la classe riprende attivamente in mano le redini del suo avvenire, l’azione del Partito è determinante per dare a questo processo una forma politica capace di produrre un avanzamento reale. Ma di fronte alle violenze che la memoria della liberazione subisce nel presente la Repubblica Partigiana dell’Ossola è anche la testimonianza che questa non fu fatta solo di operazioni militari, non fu l’avventura di qualche scavezzacollo o bandito, non fu animata dalla volontà di ottenere uno stato più liberale astratto dalla realtà sociale: si trattò invece del prodotto fecondo di una classe che, animata da sentimenti sinceramente democratici, riprendeva il proprio ruolo di protagonismo attivo nella storia.
NOTE
[1] P. Secchia, C. Moscatelli, IL MONTE ROSA È SCESO A MILANO, Einaudi 1973 [2] Ibidem [3] Ibidem [4] Ibidem [5] P. Togliatti, direttive a Moscatelli del 6 giugno 1944 [6] cfr. P. Secchia, C. Moscatelli, IL MONTE ROSA È SCESO A MILANO, Einaudi 1973 [7] N. Chiovini, I GIORNI DELLA SEMINA, Vangelista 1979 [8] P. Secchia, C. Moscatelli, IL MONTE ROSA È SCESO A MILANO, Einaudi 1973 [9] N. Chiovini, I GIORNI DELLA SEMINA, Vangelista 1979 [10] P. Secchia, C. Moscatelli, IL MONTE ROSA È SCESO A MILANO, Einaudi 1973 [11] Ibidem [12] P. Malvestiti, OSSOLA INSORTA [13] G. Vermicelli, BABEUF, TOGLIATTI E GLI ALTRI – RACCONTO DI UNA VITA, Tararà edizioni 2000 [14] Ibidem [15] Ibidem
BIBLIOGRAFIA
- Azzari, UN ANNO DI RESISTENZA NELL’OSSOLA
- Chiovini, I GIORNI DELLA SEMINA, Vangelista 1979
- ENCICLOPEDIA DELL’ANTIFASCISMO E DELLA RESISTENZA, Ossola
- ENCICLOPEDIA DELL’ANTIFASCISMO E DELLA RESISTENZA, Zone Libere
- Secchia, C. Moscatelli, IL MONTE ROSA È SCESO A MILANO, Einaudi 1973’
- Spriano, STORIA DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO – LA RESISTENZA. TOGLIATTI E IL PARTITO NUOVO, Einaudi 1975
- Vermicelli, BABEUF, TOGLIATTI E GLI ALTRI – RACCONTO DI UNA VITA, Tararà edizioni 2000