Riprendiamo e condividiamo di seguito un contributo di analisi da parte di Alessandro Scattolo del Laboratorio Politico Gramsci pubblicato su L’Ordine Nuovo.
“Il DL Sicurezza ha rappresentato e continua a rappresentare un tema centrale nel dibattito pubblico: mentre sono già partiti i ricorsi presso la Corte Costituzionale a causa della mancanza di “necessità e d’urgenza” tipiche dei decreti legge, il riferimento alla stretta repressiva da parte del governo è sempre presente nei contesti di lotta e la sua eco ha caratterizzato fortemente anche le piazze del 25 aprile. Alla luce della centralità del tema, ospitiamo con piacere un contributo di analisi da parte di Alessandro Scattolo del Laboratorio Politico Gramsci. Buona lettura.”
—–
di Alessandro Scattolo
Lo scorso 4 aprile il governo Meloni ha adottato il Decreto Sicurezza, esautorando il Parlamento dove era in corso la sua discussione. Dalle ricostruzioni giornalistiche pare che ci siano stati errori di calcolo nelle coperture economiche[1], che si sono aggiunte ad alcune eccezioni di incostituzionalità sollevate dalla Presidenza della Repubblica nei confronti delle parti più controverse del Ddl[2], rendendo complesso il lavoro di mediazione al Senato e imponendo la necessità di un ritorno alla Camera. Il rischio era anche quello di esporre la maggioranza a ricorsi presso la Corte Costituzionale da parte di associazioni e all’eventualità di vittorie da parte dei ricorrenti. Per uscire da questo impasse il Consiglio dei Ministri ha preso iniziativa, cercando di accelerare i tempi e superare le contraddizioni emerse all’interno del campo istituzionale.
Per comprendere la genesi di questo decreto e il colpo di mano del 4 aprile bisogna cercare di capire qual è l’effettiva esigenza che ne sta a fondamento. A tal proposito il dibattito e le analisi critiche sollevate dai movimenti si sono concentrati sul rilevare e denunciare la volontà repressiva messa in campo dal governo. Impegno doveroso, dato che a essere colpiti dal DL sono prima di tutti i militanti politici e sindacali in prima linea nelle lotte. A uno sguardo più attento, però, si può scorgere una strategia più profonda, che attiene alla saldatura di di un blocco reazionario nel nostro paese tra la destra e il personale poliziesco e militare.
Partendo dal crinale della repressione va messo in luce come la nuova legge rappresenta allo stesso tempo sia un elemento di continuità con i precedenti decreti, sia un elemento di eccezionalità. Da un lato, infatti, si inserisce nella scia delle “Minniti-Orlando” e “Salvini”, che hanno introdotto tra le varie disposizioni il daspo urbano e il ripristino penale del blocco stradale, dall’altro lato si caratterizza rispetto a queste per il carattere sistemico con cui colpisce le lotte. Il dispositivo dell’esecutivo passa in rassegna tutte le principali forme di protesta, di conflitto o di movimento nel nostro paese, prevedendo il rafforzamento o l’introduzione di nuove reati[3]. Tra i molteplici bersagli si riscontrano: la lotta per la casa con il nuovo reato di “occupazione abusiva di un immobile destinato a domicilio altrui”, organizzazioni sindacali e studentesche con l’aumento delle pene in caso di interruzione di circolazione, i movimenti ambientalisti di disobbedienza per quanto riguarda l’imbrattamento di immobili pubblici, fino ad arrivare alle proteste nelle carceri e nei CPR. Sotto questo punto di vista ci troviamo di fronte a un tassello ulteriore nella generale tendenza autoritaria dello Stato, che rafforza un’azione preventiva contro il proletariato e le sue possibilità di emancipazione.
Fatta questa considerazione, va osservato come la repressione sia un contenuto tanto importante quanto non esaustivo del nuovo decreto e circoscrivere la propria analisi solamente su questo aspetto fa perdere di vista la finalità politica che ne sta alla base. Se si guarda all’interezza dell’impianto della nuove legge, infatti, essa appare come uno strumento generale atto a garantire differenti tutele e poteri per polizia e forze armate. Si introduce la possibilità di possedere un’arma personale oltre a quella di servizio, l’uso delle bodycam, l’aumento della disponibilità economica di supporto legale fino a 10.000 euro ai funzionari sotto indagine per azioni condotte durante lo svolgimento del servizio, maggiori tutele ai soldati impegnati in missioni internazionali e una gestione più snella dei beni sequestrati alla mafia. Non mancano, inoltre, una serie di articoli dedicati all’ambito penitenziario.
È significativo come Giorgia Meloni ha giustificato il blitz governativo, ritenendo di avere introdotto “norme necessarie che non possiamo più rinviare per rispettare gli impegni presi con i cittadini e con chi ogni giorno è chiamato a difendere la nostra sicurezza”[4]. Proprio a rimarcare come l’intento sia stato quello di soddisfare i bisogni corporativi (ed elettorali) avanzati da Polizia e Forze Armate. Non a caso in data 10 marzo il Siulp, sindacato poliziesco più rappresentativo in Italia, aveva esercitato pressione affinché si procedesse con il DDL, “per ridare autorevolezza alle Istituzioni”, per arrivare “nel più breve tempo possibile al varo delle norme contenute nel Decreto Sicurezza, dalla tutela del personale, come tutela legale e bodycam, per la garanzia di trasparenza sull’operato delle forze di polizia per i cittadini”. A questa richiesta il Siulp si è spinto anche a considerazioni politiche, sostenendo l’idea di “una squadra unita dello Stato”, che sulla scia del lavoro di Piantedosi possa andare “tutta nella stessa direzione, perché se uno solo dei componenti va in una direzione diversa o addirittura opposta, è evidente che la percezione che ne ha il cittadino è quella dell’inefficacia dell’azione dello Stato nel suo insieme”[5]. Insomma rischiava di venire meno quella lealtà tra istituzioni politiche e di ordine pubblico, la cui dimostrazione è fondamentale per giustificare la propria funzione di potere. Ancora più esplicito il Siap, terzo sindacato per numeri di iscritti, che ha invitato a rispettare “il responso elettorale, che vede per la prima volta una donna a capo del Governo, e l’ambito Ministero dell’Interno affidato alle cure di un prefetto apprezzato per il suo equilibrio e dedizione[6]”. Invece è proprio sul fronte repressivo che sono state sollevate critiche da parte del segretario del Siulp Felice Romano, in particolare sulla sproporzione delle pene per il reato stradale rispetto a chi lo commette come giovani e studenti[7], al contrario del favore con cui ha accolto le bodycam e la copertura legale. Si deduce come di fronte alle richieste sindacali il decreto svolga una funzione propagandistica per la destra, che doveva dimostrare di sapere soddisfare le istanze sollevate dalle questure e dalle caserme. L’intero dispositivo rappresenta una pioggia di misure che costituiscono di fatto un enorme gettone elettorale verso polizia ed esercito, costituendo un unicum di questo tipo in tempi recenti. In tal modo la coercizione diventa un mezzo per un fine più ampio, ovvero quello della fidelizzazione politica dell’apparato repressivo dello Stato.
Non a caso non si è fatto mancare il plauso dei sindacati principali, sia da parte della componente poliziesca[8], sia da parte militare[9]. Da segnalare, invece, la voce fuori dal coro del Silp, articolazione della CGIL nella Polizia di Stato, fortemente minoritaria in termini di iscritti, che ha denunciato il paradigma nefasto del decreto in termini di concezione della sicurezza e l’ipocrisia di un’operazione propagandistica che non risolve i problemi del personale[10]. In particolare il segretario Pietro Colapietro della Silp, intervistato da Collettiva, portale della CGIL, ha stigmatizzato il tentativo governativo di legarsi politicamente all’apparato preposto all’ordine pubblico, sollevando il rischio di perdita della neutralità dell’ente poliziesco a favore di una determinata parte politica, circostanza che ne comprometterebbe il profilo istituzionale. Con il DL la maggioranza parlamentare si porrebbe come “l’unica a favore delle forze dell’ordine”, generando “uno scollamento nel rapporto di terzietà, di neutralità della polizia”, con la preoccupazione per cui “in un contesto sociopolitico così delicato questo genera un problema in più, complicando il rapporto tra forze dell’ordine e cittadinanza”[11]. Una posizione utile a sottolineare come la legge di governo sia una misura di facciata, incapace di risolvere i problemi reali del personale, ma che suona strumentale in quello che è un posizionamento politico contro l’attuale esecutivo. Ciò che la destra persegue, dunque, è la saldatura politica con il ceto amministrativo preposto al controllo e il decreto è uno degli strumenti possibili. Ci sono altre proposte che vanno nella stessa direzione, come quella dello scudo penale già avanzata negli scorsi mesi, che confermano la strategia fidelizzante della destra. A ben vedere la stessa composizione del governo è esemplare di questo processo, con un prefetto di carriera, quale Matteo Piantedosi, nominato Ministro dell’Interno, avendo elevato in tal modo un funzionario dello Stato ad autorità politica. Negli anni passati, giusto per fare un altro esempio, abbiamo assistito alla propaganda salviniana, quando il segretario della Lega appariva ai comizi con indumenti firmati “Polizia di Stato”. In sostanza la destra sa e vuole che le istituzioni repressive siano un bacino di consenso privilegiato, facendo in tal modo del braccio armato dello Stato un’articolazione fedele in termini di consenso. È evidente quanto una simile interconnessione non sia secondaria e vada a costituire una compagine reazionaria politico-istituzionale già sperimentata nel secolo scorso nella forma terroristica di governo borghese del regime fascista. Per tale ragione la fidelizzazione politica perseguita dalla destra è una dinamica non secondaria nella trasformazione autoritaria dello Stato e va più che mai attenzionata, ovviamente senza cadere nell’errore di ritenere che ci troviamo in uno stato fascista o pre-fascista come troppe volte viene gridato, finendo per annacquare una categoria politica ben definita come quella di “fascismo”. Un simile processo ha anche un risvolto egemonico nella base ideologica comune legata al patriottismo nazionalista e alla concezione securitaria della società, che vengono trasmesse alla popolazione e alle nuove generazioni attraverso la militarizzazione della scuola. Ampliando la riflessione al resto dell’arco politico troviamo una sinistra, nelle sue varie forme liberiste e socialdemocratiche, viziata di fondo dall’opportunismo, incapace di esprimere un’alternativa politica e con le forze maggioritarie sempre pronte a schierarsi dalla parte degli interessi nazionali e alla dittatura di classe ogni qual volta si verifichino episodi di conflitto che rompono con la legalità borghese.
Quanto messo in luce in questo processo, di cui il DL sicurezza è un risultato, non è casuale, ma è figlio dei tempi. Le due tendenze fin qui discusse, quella repressiva e quella del blocco reazionario, hanno delle cause oggettive, materiali e connesse tra loro: la crisi di accumulazione capitalista iniziata dopo il trentennio glorioso 1945-1975, l’inasprimento delle tensioni imperialiste e l’emersione nazionalista e fascista in Europa, che ci portano verso un processo di guerra generalizzata e di riarmo militare. A questo quadro si aggiunge la sconfitta storica del movimento comunista, unico contrappeso alla barbarie del capitale. Per la classe dominante affrontare tale scenario di crisi strutturale significa intensificare l’estrazione di plusvalore, rafforzare la competizione nel mercato mondiale e riuscire a imporsi nelle tensioni geopolitiche. Tutto ciò è perseguibile sul piano interno mediante un rafforzamento dello sfruttamento di classe, sul piano esterno con la preparazione militare per conflitti futuri, tutte condizioni che la borghesia può garantirsi solo attraverso il consenso e il rafforzamento del comparto poliziesco-militare dello Stato.
Oltre a questo orizzonte regressivo, tuttavia, rimangono le lotte. Gli inasprimenti coercitivi, difatti, dimostrano come la realtà non sia ferma, che le contraddizioni del capitale continuano a generare piccole e grandi resistenze. Le battaglie che si producono non saranno in grado di mettere in discussione i rapporti di forza su un piano generale, ma ricordano quanto le tendenze negative della storia non siano una necessità ineluttabile e come un altro avvenire sia possibile. La forza del decreto Meloni, data dall’ampiezza dell’attacco condotto ai movimenti e alle organizzazioni sindacali, dovrebbe essere rovesciata in una debolezza, unendo le forze di tutti quei soggetti colpiti dalla nuova legge. È vero che negli scorsi mesi si sono registrate mobilitazioni importanti e manifestazioni partecipate in termini di attivazione, costituendo una risposta inaspettata per l’esecutivo, tuttavia rimangono due ostacoli che impediscono di avanzare concretamente sul piano dei rapporti di forza, quali la frammentazione e l’assenza di un’organizzazione politica. Nonostante la portata coercitiva da parte del governo, difatti, rimangono insuperate le ataviche divisioni tra movimenti, aree politiche e sindacalismo di base, sia a livello territoriale, sia a livello nazionale. Solo la capacità di costruire fronti unici, che permettano di coagulare diversi soggetti, può garantire una posizione più incisiva sul piano della lotta economica. La solidarietà e il contrasto alla repressione potrebbero e dovrebbero essere il minimo comune denominatore per unire le forze contro l’offensiva che il DL rappresenta. Legato a questo rimane cruciale l’assenza di un partito politico comunista capace di connettere, organizzare e dare una direzione politica rivoluzionaria alle avanguardie sindacali e sociali per una rottura dell’attuale sistema capitalistico e la costruzione di un altro modo di produzione. Senza un partito all’altezza dei tempi continuerà a mancare quella forza organizzativa in grado di contrastare efficacemente le tendenze autoritarie della borghesia e di condurre la classe lavoratrice verso un modo di produzione socialista.
Alessandro Scattolo
(Laboratorio Politico Antonio Gramsci)
Note
[3]: Per un approfondimento sui contenuti del decreto si veda l’articolo dell’8/04/2025 dell’Ordine Nuovo: https://www.lordinenuovo.it/2025/04/08/repressione-per-decreto-il-contenuto-dei-nuovi-provvedimenti-del-governo/
[5]: https://siulp.it/varare-subito-il-decreto-sicurezza-serve-una-squadra-dello-stato-unita/
[6]: https://www.lidentita.it/il-decreto-sicurezza-ci-impone-una-riflessione-sulla-liberta/
[7]: L’intervista realizzata dal Manifesto a Felice Romano (Siulp) mostra quanto per il sindacato l’interesse fosse particolarmente rivolto agli strumenti di tutela del personale come le body cam e la detenzione delle armi: https://ilmanifesto.it/romano-siulp-il-reato-di-blocco-stradale-limita-il-diritto-di-manifestare
[8]: https://siulp.it/romano-siulp-soddisfazione-per-prima-tappa-verso-tutele-di-cittadini-e-poliziotti/
Per il siap si rimanda al link precedente: https://www.lidentita.it/il-decreto-sicurezza-ci-impone-una-riflessione-sulla-liberta/
[10]: “Un contentino che non risolve i problemi”: https://www.silpcgil.it/articolo/12310-decreto_sicurezza,_un_contentino_che_non_risolve_i_problemi
[11]: https://www.collettiva.it/copertine/italia/dl-sicurezza-i-poliziotti-dicono-no-yxkfj4cp
Il dibattito riportato in forma estremamente sintetica tra le organizzazioni sindacali potrebbe essere uno spunto interessante per una discussione politica sulla storia del movimento di sindacalizzazione e smilitarizzazione della polizia. Negli anni ’70 l’intervento politico si era rivolto verso un settore considerato originariamente come uno spazio liscio repressivo totalmente privo di contraddizioni al proprio interno.