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Ghibli e miyazaki: l’animazione come critica sociale

*di Francesco Raveggi

Il 5 Gennaio è una data simbolica per tutti gli appassionati di film d’animazione: è il compleanno del Maestro dell’animazione, Hayao Miyazaki. I suoi film, prodotti in seno allo Studio Ghibli, di cui è stato fondatore, sono conosciuti e premiati in tutto il mondo – si pensi anche al fatto che uno dei suoi capolavori, “La città incantata”, è stato l’unico film d’animazione giapponese a vincere un Premio Oscar. Fantasia, forme e colori particolareggiati, uno stile unico di narrazione e una capacità incredibile di tenere lo spettatore incollato allo schermo fino all’ultimo secondo; questi sono solo alcuni dei grandiosi aspetti che si potrebbero dare ai film del Maestro del Sol Levante.

Ma cosa c’è in più? Qual’è quella caratteristica che differenzia Miyazaki da un Walt Disney di turno?

L’impegno nel creare messaggi da trasmettere. Non si tratta dei soliti, perdonatemi il termine, “messaggini” scontati che possono o meno passare nelle moderne produzioni targate Disney-Pixar, ma di un qualcosa di molto più profondo e particolare. Di una ricerca dettagliata, in cui ogni singola scena, ogni singolo particolare o dialogo può voler significare qualcosa di estremamente profondo. Niente, nelle produzioni targate Studio Ghibli, e in particolar modo quelle di Miyazaki, è lasciato al caso.

Questi messaggi sono dei più svariati: nota è l’attenzione che le produzioni hanno sempre mostrato verso le tematiche dell’ambientalismo, del femminismo e del pacifismo, cercando di mettere in mostra le barbarie prodotte, e lo dico senza timore di esser tacciato di eccessività, dall’imperialismo e dal sistema capitalistico. Ebbene si; questa è la caratteristica che forse più di tutte contraddistingue le produzioni dello studio nipponico e del grande Maestro. Quasi tutte le sue opere, se analizzate, contengono una forte critica sociale, economica e politica al sistema capitalista e agli orrori che è capace di provocare. E qui ci si ricollega ad un altro punto, ovvio in estremo oriente ma non così scontato in occidente: l’animazione come un qualcosa capace di trascendere il proprio stile e il proprio genere, per approdare ad un qualcosa di più profondo e significativo. Il film d’animazione smette quindi di essere un prodotto esclusivamente calmo e tranquillo, riservato ai bambini, per approdare ad un pubblico nettamente più ampio, mostrando scene talvolta crude e pesanti.

In “Laputa – Il Castello nel cielo”, viene mostrata la storia di una bambina, Sheeta, che, inizialmente prigioniera di un gruppo di soldati governativi, riesce a scappare quando l’aeronave su cui si trova viene abbordata da dei pirati, buttandosi di sotto dalla stessa e sopravvivendo grazie all’azione della gravipietra che tiene al collo. Verrà prontamente salvata da un bambino, Pazu, che vive in un villaggio di operai e minatori. Da allora, i due bambini si ritroveranno a dover fuggire dall’esercito e dai pirati in una serie di peripezie che li condurranno, infine, a Laputa, la leggendaria città volante.

Già solo su questo film ci sarebbe da discutere a lungo, individuando ogni peculiarità. Come lui stesso ha avuto modo di affermare numerose volte, il primo aspetto delle sue opere è che i protagonisti sono quasi sempre femminili e in età giovanile; bambine, quindi. Bambine che non hanno bisogno di uomini a salvarle, che non sono deboli e indifese contro il mondo, ma che hanno il coraggio di agire, di reagire e di vincere le avversità. Non principesse maltrattate ma guerriere. E se questo non bastasse, come non parlare della presenza dei minatori? Una comunità fortemente idealizzata, in cui ognuno prende parte a un qualcosa di collettivo; Miyazaki ne prese ispirazione durante un suo viaggio in Galles, a metà degli anni ’80, e decise di rappresentarli come tributo ai minatori in sciopero contro le misure del governo Thatcher. Miyazaki riprenderà la tematica della comunità che condivide anche in “Ryu il ragazzo delle caverne”, dove metterà in evidenza la felicità di una società dove la proprietà privata è drasticamente ridotta.

In “La città incantata”, film che gli valse, come già detto, il premio oscar, che decise di non andare a ritirare per protesta contro l’intervento militare statunitense in Iraq, si trova una netta critica alla società dei consumi, rappresentata nei genitori della piccola Chihiro, tramutati in maiali. E ancora: l’importanza di ricordare sempre la propria identità, di rimanere aggrappati alle proprie convinzioni e di mostrare generosità e spirito di collettività, piuttosto che rinchiudersi in uno schietto egoismo in cui si perde ogni capacità di ragionamento.

In “Nausicaa della valle del vento”, forse si trova la più aspra critica alla società occidentale che Miyazaki abbia mai fatto: in una terra devastata da una guerra nucleare, 500 anni dopo la catastrofe un piccolo regno pacifico cerca di prosperare in armonia con la terra e con la natura, con un’economia prettamente agricola e di sussistenza e cercando di non infastidire la “giungla tossica”, che si estende per quasi tutto il pianeta. Di contro, le grandi potenze rimaste in piedi cercano costantemente di arricchirsi sulle spalle dei più poveri, senza scrupoli. Nonostante il mondo sia in rovina, nonostante esistano solo piccole oasi di verde naturale, loro continuano a distruggersi a vicenda, ricercando armi di distruzione di massa sempre maggiori non come deterrente per i conflitti, ma per trionfare contro il nemico, capitanati da regnanti disposti anche a sacrificare il proprio popolo pur di ottenere altre ricchezze.

Come non citare, infine, “Porco Rosso”, la sua celebre opera ambientata nell’Italia fascista a cavallo degli anni ’20-’30? Critica alla dittatura fascista, alla costante ricerca di differenziazioni per discriminare “il diverso”, e molto altro. Famosa la scena cult nel cinema, dove, alla presenza di un vecchio commilitone che cerca di convincere il protagonista ad arruolarsi nell’esercito, viene detta la famosa frase “meglio essere un maiale che un fascista”.

Non si può certo snaturare quello che non è; Miyazaki, pur essendo stato militante, da giovane, di diverse organizzazioni marxiste, e pur essendo stato seguace per molto tempo del marxismo, non può in ogni caso essere assunto a mito dell’ideologia marxista-leninista, e non è il nostro intento. Nonostante ciò, non si può non apprezzare il grosso lavoro svolto dallo Studio Ghibli e dai due grandi maestri Hayao Miyazaki e Isao Takahata nel ricercare, in un complesso scenario socio-politico come quello giapponese, dove sono sempre venuti a mancare elementi di critica alla società che non trovassero risposta in un’alienazione totale rispetto alla società stessa, uno spazio per la critica e la condanna totale di molti aspetti della società occidentale.

Oltre miyazaki, takahata

Una piccola menzione speciale, in conclusione, va anche all’altro, grande maestro del Ghibli: Isao Takahata, autore di molti film d’animazione di successo, di cui ne citerò solo due, tra i più significativi: “Una tomba per le lucciole” e “La storia della principessa splendente”.

Il primo film, estremamente duro, ai limiti del neorealismo, narra le vicende di due fratellini giapponesi (un ragazzo adolescente e una bambina) sul finire della seconda guerra mondiale, mostrando le violenze dei bombardamenti americani e la condizione in cui erano costretti a vivere i civili giapponesi durante il passaggio della guerra. Soltanto la scena iniziale, in cui si vede il giovane protagonista, morto per fame, abbandonato per terra a sé stesso nel mezzo di una stazione ferroviaria, il cui cadavere verrà gettato fuori per evitare di sfigurare all’arrivo degli americani, fa capire l’importanza e la cruda realtà a cui abitua questo film.

Il secondo film è invece una trasposizione d’animazione di un’antica leggenda giapponese. Lo stile grafico, i colori e il lessico che viene usato sono indice dei riferimenti che assume questo film, diventando, nello scenario d’animazione giapponese odierno, in cui ormai il monopolio appartiene a operette occidentalizzate, quasi una piccola perla di “tradizione”.

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