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La rivolta popolare in Bosnia non gradita all’Unione Europea

Di Salvatore Vicario

Mercoledì 5 Febbraio, la Bosnia si è sollevata. Vent’anni dopo la guerra fratricida e le bombe della NATO, che hanno disgregato la Jugoslavia, il paese sta vivendo una rivolta senza precedenti. Le mobilitazioni iniziate dagli operai licenziati nella città industriale di Tuzla si sono diffuse nel resto del paese, coinvolgendo circa 30 città, in particolare le città di Zenica, Banja Luca, Mostar e Sarajevo, dove la sede del governo è stata data alle fiamme venerdì. La rabbia della classe lavoratrice e dei settori popolari è grande per un paese che ha perso 600.000 persone dal giorno dell’indipendenza scappate per la miseria e dove il 44% della popolazione attiva è disoccupata (il 57% sotto i 25 anni), il salario medio è di 420 euro e uno su cinque vive in stato di povertà. Da due decenni la popolazione bosniaca è afflitta da una falsa divisione etnica, dal terrore sociale sullo sfondo della disoccupazione di massa e dalle privatizzazioni di diverse aziende statali che hanno lasciato sul lastrico i lavoratori.

La rivolta operaia di Tuzla è significativa, essendo questa città l’ultimo residuo di multiculturalismo in Bosnia e il bastione industriale del paese dove tra il 2000 e il 2008 sono state privatizzate le 5 principali imprese pubbliche: Dita (detergenti), Polihem (Chimica), Guming Resod (gomma), Konjuh (mobili), Aida (scarpe). Migliaia di lavoratori, si sono ritrovati così senza lavoro a causa delle criminali manovre organizzate da alcune imprese straniere – in particolare tedesche – che dopo essersi impossessate di importanti aziende locali col processo di privatizzazioni guidato dal FMI e dalla BERS (Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo) le hanno distrutte e mandate in bancarotta, e i capitali sono spariti. Così da un anno migliaia di operai – buona parte della popolazione della città – si ritrovano senza stipendio, senza assicurazione sanitaria e senza neanche la prospettiva di una misera pensione, visto che negli ultimi 14 anni le imprese in questione non hanno versato neanche i contributi previdenziali (al 10%).

20 anni di disastro sociale e privatizzazioni

Alla fine della “guerra civile”, secondo le stime, tra i 100 e 200.000 bosniaci sono rimasti uccisi, quasi tutte le infrastrutture del paese distrutte (il 40% dei ponti, 35% delle strade…) con danni stimati tra i 10 e 40 milioni di dollari, circa due/quattro volte il PIL del paese prima della guerra.

In un paese che tra il 1991 e il 1996 ha visto il suo PIL ridursi di 5 volte, la distruzione-ricostruzione è stata la macabra condizione del rilancio dell’economia capitalista dopo la guerra, coi prestiti del FMI che hanno finanziato lucrosi contratti per le imprese locali e internazionali.  La Bosnia è stata praticamente posta sotto il controllo del FMI che ha nominato il governatore della Banca Centrale Bosniaca, mentre la BERS (Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo) ha guidato il programma di privatizzazione. L’agenzia di privatizzazione bosniaca ha fissato un programma semplice: “Privatizzare tutto”, in un paese che nel 1991, nell’ex Jugoslavia aveva circa 1200 imprese statali che controllavano i principali servizi pubblici e l’industria pesante (anche se non va dimenticato che il 90% delle 26.000 aziende erano private). Le élite bosniache hanno privatizzato pezzo per pezzo, passo dopo passo. Dapprima le piccole imprese (1995-1999), dopo le banche (1999-2000), poi l’Industria pesante (2000-2010) e infine i settori strategici (2010-2014). Ad oggi il settore bancario è totalmente privatizzato e sotto controllo dei capitali esteri (in particolare tedeschi e austriaci), l’industria pesante è venduta al capitale straniero come il gruppo metallurgico RML Zenica posseduto dalla multinazionale lussemburghese ArcelorMittal, un colosso dell’industria mondiale, il più grande produttore d’acciaio, è anche leader di mercato nella fornitura di acciaio per l’industria automobilistica e per i settori delle costruzioni, degli elettrodomestici e degli imballaggi. Per il 2014 il governo bosniaco ha previsto la vendita delle imprese strategiche, già di per sé aperte al capitale straniero e dove lo Stato ha una posizione di minoranza: la RMK Zenica, Bosnian Airwais, Energopetrol (petrolio), BH Telecom e la Fabbrica di tabacco di Sarajevo. La Bosnaljek, società farmaceutica operante in 22 paesi, adesso appartiene ad un fondo di investimento croato. Lo Stato ha deciso la vendita anche dell’Aluminij, uno dei pochi gruppi bosniaci competitivi su scala internazionale, che apparteneva al 44% allo Stato e al 44% ai dipendenti. L’alluminio rappresenta il settore leader nelle esportazione del paese. Lo Stato ha deciso di vendere le proprie quote e quelle dei lavoratori per 80 milioni di euro… mentre il gruppo nell’ultimo anno ha registrato 550 milioni di utili!

A quasi 20 anni dall’indipendenza, la Bosnia è un paese di povertà, con un agricoltura devastata, la sua industria smantellata, i servizi pubblici saccheggiati, la sanità e l’istruzione privilegi dei ricchi. Il deficit commerciale ammonta a circa il 30% del PIL (per un confronto, la Grecia è pari al 4% del PIL). Tra il 2006 e il 2012 il debito è aumentato dal 29 al 45%, con le «riforme strutturali» del FMI, fatte di tagli alle prestazioni sociali, ai salari e pensioni, e privatizzazioni. La Bosnia è un paradiso per le multinazionali con una tassazione basata sulla “flat tax” del 10% sui redditi e sulle società. Lo Stato garantisce inoltre importanti esenzioni fiscali se una società esporta più del 30% dei suoi prodotti o investe almeno 20 milioni in Bosnia: un enorme vantaggio per le grandi aziende, che fa della Bosnia un paradiso fiscale nel cuore dell’Europa.

Nazionalismo e divisione etnica: cuneo del capitale contro la classe lavoratrice

Il principale partito di governo della Bosnia è il Partito d’Azione Democratica, attore della divisione della Jugoslavia e seminatore di odio religioso ed etnico, affiliato al Partito Popolare Europeo e sostenuto fin dalla sua nascita dai capitali UE, USA, degli Emirati e dei sauditi. Questo Partito è stato fondato nel 1990 da Alija Izetbegovic, che nel 1941 quando la Germania Nazista invade la Jugoslavia annettendo l’attuale territorio della Bosnia, si unì a combattere nelle file dei Giovani Musulmani (Mladi Muslimani) al fianco del movimento fascista Ustacia di Corazia e i Cetnici serbi, contro i partigiani comunisti seminando il terrore nelle campagne bosniache. Il PAD nel ’92 guidò il processo di indipendenza dalla Jugoslavia, che ebbe il sostegno dell’UE e degli Stati Uniti che riconobbero lo Stato della Bosnia, iniziando così il conflitto fratricida che ha portato alla spartizione del territorio su basi etniche, sotto la supervisione degli USA e le bombe della NATO.  La divisione etnica, ha rappresentato per anni un cuneo contro i lavoratori per dividerli a vantaggio del capitale e delle multinazionali che in questi anni hanno imposto il loro dominio con la compiacenza della borghesia locale con la garanzia della pace sociale che si è rotta la settimana scorsa con l’esplosione della rabbia operaia contro i governi locali e le multinazionali, con migliaia di lavoratori che si sono messi alla testa delle proteste che hanno coinvolto anche studenti, pensionati, reduci e commercianti.

L’Unione Europea condanna la rivolta

A differenza degli eventi in Ucraina, in Bosnia i manifestanti non hanno bandiere dell’UE o statunitensi. E l’UE (come gli USA) infatti si mostra preoccupata e critica verso queste sommosse nel paese, annunciando che sta vagliando la possibilità di un intervento diretto nel paese in caso questa situazione si perpetuasse.

Nel 2006, la Bosnia ha firmato il “Partenariato per la Pace”, uno strumento di espansione della NATO nell’ex Jugoslavia per poi nel 2010 entrare nel processo di adesione alla NATO inviando allo stesso tempo un contingente in Afghanistan, al fianco delle truppe americane. Nel 2009 nel contesto dell’aumento dei rapporti di interdipendenza coi “partner” europei, la Bosnia ha firmato l’accordo di associazione con l’Unione Europea, un Trattato di Libero Commercio che apre il mercato bosniaco ai prodotti Tedeschi, Croati e Austriaci, che ha fatto aumentare la sua dipendenza dal capitale estero, affondando le industrie bosniache più competitive e accelerando la vendita dei beni pubblici agli investitori capitalisti tedeschi o austriaci, integrandosi nel mercato europeo e globale a spese dei lavoratori.

La rivolta in Bosnia, taciuta dai grandi mezzi di comunicazione, assume pertanto un importanza simbolica all’interno dell’Unione Europea, rappresentando il fallimento palese delle false promesse di pace e prosperità che l’integrazione europea doveva portare a tutti. La realtà dimostra che il processo europeo è a beneficio solo del grande capitale. Per le borghesie europee, inoltre è un pericolo per il rischio d’espansione nel resto dei Balcani di vere mobilitazioni dei lavoratori, che possono mettere in discussione il potere dei monopoli e essere da scintilla per il resto d’Europa.

I comunisti jugoslavi a sostegno della rivolta

Il Nuovo Partito Comunista della Jugoslavia (NKPJ) e la Lega della Gioventù Comunista di Jugoslavia (SKOJ), si sono schierati da subito al fianco della protesta che al momento assume caratteri spontanei e poco organizzati, affermando che il popolo della Bosnia-Erzegovina, si sta scagliando contro il suo governo borghese e pro-imperialista, contro il sistema e il percorso che esso rappresenta. Questo sistema è il barbaro capitalismo che ha portato terribile miseria e desolazione. E’ fondamentale riconoscere ciò e lottare contro di esso. Si sta adesso combattendo per gli interessi materiali, tali interessi sono direttamente opposti agli interessi della classe dominante rappresentanti della borghesia di recente formazione che si è formata dai ranghi di coloro che hanno venduto la proprietà del popolo, saccheggiato l’economia, tradito gli interessi del popolo spingendo ad una guerra senza senso nell’interesse dell’imperialismo occidentale, di cui entrambi hanno beneficiato. I comunisti proseguono affermando che, la rivolta dei lavoratori di Tuzla deve esser accompagnata in tutto il territorio dell’ex Jugoslavia, chiamando alla solidarietà e al supporto della lotta, in quanto il successo della lotta dei lavoratori di Tuzla dipende dalla lotta di tutto il popolo della Bosnia-Erzegovina e il successo della lotta in Bosnia-Erzegovina dipende dall’estensione della rivolta in tutta la regione nazionale dell’ex Jugoslavia. Il NKPJ e la SKOJ, mettono al tempo stesso allerta sulle possibili strumentalizzazioni reazionarie delle varie forze nazionaliste al servizio del capitalismo imperialista che cercano di separare e dividere, e quindi indebolire e disarmare la lotta. Per i comunisti la divisione etnica-nazionale ha beneficiato solo corrotti politici filo-capitalisti, “uomini d’affari” e magnati, uomini di guerra e sono la causa della situazione disperata in cui si trova la classe lavoratrice e le masse popolari. I lavoratori in rivolta, infatti, hanno fatto appello all’unità dei tre popoli che vivono in Bosnia-Erzegovina rigettando al momento le divisioni etniche. I comunisti concludono il loro comunicato invitando a non lottare sotto le attuali bandiere nazionali, che sono simbolo di divisione e occupazione imperialista, ma sotto le bandiere della Repubblica Socialista, innalzando nuovamente le bandiere rosse della lotta proletaria e dell’unità nazionale della Repubblica Socialista Federale Jugoslava.

Lunedi, 10 Febbraio, a Belgrado di fronte all’ambasciata bosniaca si è tenuta una prima dimostrazione a sostegno della rivolta in Bosnia e per mercoledì 12 Febbraio è stata annunciata una nuova manifestazione nella capitale serba organizzata dalle varie organizzazione comuniste, tra cui il NKPJ e la SKOJ, per lo Stato dei lavoratori con istruzione e sanità gratuita, la giustizia sociale e la lotta contro la criminalità e la corruzione, nonché per la reintegrazione pacifica dei paesi derivanti dalla disintegrazione della SFRJ in un nuovo Stato Socialista comune.

 

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