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Il centro commerciale: il paradigma di una società in crisi

Roma, Via Appia. Chi vive o frequenta spesso la zona, specialmente dalle parti di Furio Camillo, sarà certamente rimasto stupito nel ritrovarsi davanti, da un giorno all’altro, un enorme complesso edilizio all’incrocio con Via Cesare Baronio. Quella fetta di terra, precedentemente contornata da alte palizzate in legno che impedivano la vista, era il deposito STEFER ovvero la vecchia società che gestiva il trasporto pubblico intorno alla città di Roma. La riqualificazione dell’area era nei piani del comune già dal 1987 (con la giunta Signorelli) e il progetto prevedeva inizialmente la creazione di un mercato ortofrutticolo. L’iniziativa riprese vitalità durante negli anni 2000 con un susseguirsi di modifiche al progetto originario fino a diventare un centro commerciale finanziato da una cordata di imprenditori. A capo di questa vi sono i Mezzaroma, importante famiglia di costruttori romana: una fortuna nata con il capostipite Amerigo in seguito al boom edilizio del dopoguerra e continuata con figli e nipoti tra i quali Marco, l’ex marito di Mara Carfagna parlamentare del PdL, e Massimo, ex presidente del Siena coinvolto nell’ inchiesta sul calcioscommesse.

Nella conferenza stampa di apertura non poteva mancare, da parte di Barbara Mezzaroma, un elogio delle possibilità lavorative che Happio, questo il nome del centro, fornirà al quartiere e alla città intera: oltre al fatto di essere il centro commerciale in assoluto più vicino al centro (la dinamica di questi complessi è stata per anni quella di costruire accanto a zone urbane molto recenti e addirittura di costruire le zone urbane adiacenti alla struttura, in sua funzione; Happio sorge invece a un kilometro e mezzo da San Giovanni in una zona considerata semi centrale, anche perché adiacente al I Municipio), la struttura ospiterà un gran numero di negozi (a pochi giorni dall’apertura e a lavori non ancora ultimati già 38 sono quelli aperti) e, conseguentemente, un gran numero di posti di lavoro.
Il tentativo di far sembrare questa novità il più “friendly” possibile passa anche dall’installazione di una serie di grosse lumache posticce dall’imprecisato ruolo sulle mura della struttura (forse riferite alla durata del progetto?) e dal triste gioco di parole tra “happy” e Appia; per i meno anglofoni un sottotitolo recita “lo shopping felice”.

Non tutto però è così idilliaco come i costruttori vogliono far pensare. La realizzazione del Centro Commerciale, infatti, ha destato approvazione e polemiche anche all’interno delle istituzioni tanto che Barbara Mezzaroma, nella conferenza stampa di apertura, vuole ringraziare le istituzioni “ma non tutte”, come ha chiarito.
Tra i perplessi, inoltre, si annoverano senza dubbio i piccoli commercianti delle zone adiacenti al nuovo centro commerciale, preoccupati nel veder sorgere un importante rivale commerciale che rischia di far chiudere molti esercenti vicini al complesso.

La retorica che lega l’apertura di questi luoghi di consumo di massa all’aumento dei posti di lavoro non è certo nata insieme a Happio e va affrontata sotto due prospettive diverse, seppur strettamente connesse. Uno è il discorso economico e l’altro il discorso sociale.

L’argomento economico può essere trattato secondo due principali direttive: quella del piccolo commerciante e quella del lavoratore. Nel seguire il filo di questo discorso non bisogna fermarsi al breve termine, i primi mesi di apertura, ma guardare nel lungo periodo gli effetti prodotti da un centro commerciale tramite la lente del concetto di “monopolio”.

Per quanto riguarda il destino dei commercianti della zona la risposta sembra essere stata data dal loro stesso malcontento: la costituzione di una simile struttura popolata esclusivamente da grandi catene di distribuzione significherà un colpo molto più duro della semplice presenza accanto ai piccoli commercianti di negozi delle grandi marche: la creazione di un microcosmo del consumo completamente autosufficiente (i centri commerciali possono soddisfare al proprio interno praticamente la domanda di qualsiasi prodotto) non svantaggerà semplicemente il piccolo commercio mettendolo fuori mercato, lo renderà semplicemente invisibile. La situazione è concettualmente diversa: la presenza di una pluralità di esercizi commerciali, alcuni gestiti da privati altri da grandi marche, ha come risultato un affaticamento della piccola economia a causa del “fascino del Brand” e dei prezzi tendenzialmente più bassi garantiti da una produzione e distribuzione in larga scala. I negozi di marca sono però sparsi in un’area relativamente vasta e quindi il piccolo commercio mantiene una visibilità, seppur con fatica. Il centro commerciale crea per sè un’indipendenza strutturale in quanto nasce con il preciso scopo di poter soddisfare all’interno di sé qualunque bisogno o impulso del consumatore con una infinità di negozi, tutti di grandi marche internazionali.

L’Happio, dunque, scava la tomba dei commercianti indipendenti che, già schiacciati dalla crisi economica, non sono in grado di reggere la concorrenza delle multinazionali, le quali al contrario continuano a costruire e ad arricchirsi rendendo sempre più evidente la tendenza all’interno del capitalismo alla proletarizzazione e alla polarizzazione della ricchezza.
I piccoli commercianti costretti a chiudere o comunque a ridimensionare fortemente l’attività non fanno altro che infoltire la massa proletaria. Essi trasformandosi da piccoli proprietari in lavoratori salariati aumentano l’offerta di lavoro e in maniera indiretta ciò va ad inficiare sulla disponibilità lavorativa.

L’aumento dell’offerta di lavoro infatti non verrà assorbito totalmente dal nuovo centro commerciale: ammettiamo, come esercizio teorico, che il centro commerciale crei 50 posti di lavoro e che tutti i negozi della zona di cui parliamo ne creino 100.
I motivi di questa disparità sono due: il centro commerciale è un luogo compatto e organizzato per ospitare molti negozi e quindi risparmia molti posti di lavoro in ruoli che possono essere comuni tra i vari negozi (sicurezza, manutenzione etc); in secondo luogo il centro ha un numero limitato di esercizi che offrono i medesimi prodotti, sicuramente più limitato che un intero quartiere.
Ritornando all’esempio, nel breve periodo vi saranno 150 posti di lavoro, con un incremento del 50%. Nel lungo periodo la tendenza si inverte: la chiusura della maggior parte delle piccole attività (in America, patria del centro commerciale, anche fino all’80%) crea una forte disoccupazione che non può più essere assorbita.

Questa disoccupazione crea infine una competizione a ribasso tra i lavoratori nella speranza di ottenere un impiego. Non ha bisogno di spiegazioni il concetto per il quale quando l’offerta di manodopera supera la domanda i salari e i diritti dei lavoratori scendono.
Questo è un aspetto fondamentale da analizzare: la tematica lavorativa infatti non può esaurirsi alla questione numerica, quantitativa ma deve indagare l’aspetto qualitativo della domanda lavorativa.
I negozi presenti nel centro, con le dovute differenze tra caso e caso, assumono con contratti di lavoro sottopagato, usando diversi escamotage per ridurre la propria spesa in salari. Due esempi valgono su tutti: Zara ed H&M. Il primo marchio è solito richiedere uno stage da 300 euro mensili ai propri commessi prima dell’assunzione, che non si sa quando arriverà; il secondo invece fa largo uso del contratto a chiamata per i propri addetti vendita.
In una guerra fratricida tra chi si asservisce al minor prezzo a una multinazionale come Zara o H&M si infrangono, dunque, le considerazioni di Barbara Mezzaroma, che sostiene che “Happio creerà posti di lavoro.

Vi è, poi, sui centri commerciali anche un discorso sociale, culturale che intreccia l’economico e osserva le relazioni, i discorsi e le scelte ideologiche che si vengono a creare intorno a queste strutture. Interessante è notare che uno degli elementi più sottolineati di Happio è la sua piazza interna che, secondo Luca Pastorini, “concentrerebbe la convivialità dell’Italiano” infatti Happio “è molto più di un centro commerciale”, un luogo sociale. Lo spostamento che sta avvenendo (In Italia ma ancor più nel mondo: Giappone, Stati Uniti e, in misura minore, in Europa) tra la funzione sociale di un luogo e la sua funzione economica e consumistica è nettamente a favore della seconda. L’equiparazione tra relazione e consumo è una scelta ideologica necessaria al capitalismo e purtroppo sempre più culturalmente vittoriosa. Alcune periferie vivono oggi situazioni dove i centri di aggregazione, di socializzazione, sono sempre di più i luoghi del consumo, rendendo indistinguibile la differenza tra i due. La relazione che vedeva fondante (fin dalla polis greca) la zona sociale e politica della città (il luogo delle relazioni) rispetto alla zona economica, che gli si costruiva intorno, oggi è invertita: il luogo è prima di tutto del consumo, poi delle relazioni. Aggiungiamo che Happio prevede anche una palazzina di uffici (cosa non insolita in molti altri paesi) e giungiamo a poter definire il centro commerciale come una sorta di “luogo totale”: fonte e soddisfacimento di tutti gli impulsi e desideri, come anche di tutte le funzioni basilari dell’uomo capitalista. Nel centro commerciale si lavora, si consuma e si intrattengono relazioni. Il centro commerciale, presentato come luogo neutro, rinnova l’invito al consumo sotto la maschera della piazza in cui si invita alla socialità, nella forma degli uffici dove si crea lavoro. La volontà di far gravitare ogni forma di azione umana di fronte al simbolo del consumo capitalista, di fronte al simbolo della creazione artificiale di bisogni, tradisce il capitalismo quando si presenta come anti-ideologia, quando si presenta come pensiero neutro, quando in realtà aspira a essere un pensiero totale che ingloba e devia verso di sé ogni istanza precedentemente estranea. Allo stesso modo il centro commerciale è un luogo totale che devia entro di sé, dentro le sue mura, istanze (la socialità ad esempio) che al consumo, vero obiettivo del centro commerciale, sono estranee.

In conclusione, forse Happio non ucciderà del tutto i piccoli negozi, i nostri salari, le nostre relazioni. E questo non accadrà perché Happio è relativamente piccolo, i centri commerciali a Roma sono pochi e non sono ancora riusciti a cambiare culturalmente la nostra percezione di alcuni concetti. Indubbiamente questa però è la strada che si sta percorrendo e già è giunta all’acme in America e in molti altri paesi del mondo.
Quello che è sicuro inivece è che l’Happio non porterà posti di lavoro né vantaggi per i lavoratori ma solo maggiore sfruttamento e profitti per chi da questa crisi ha solo da guadagnare.

 

 

FONTI:
http://www.repubblicadeglistagisti.it/article/stagisti-da-zara

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