Di Jobs Act si sente parlare da mesi, eppure capire di cosa si tratta non è semplicissimo. Cercheremo di farlo nel modo più semplice possibile trattando una materia estremamente complessa, per consentire a tutti di comprendere i passaggi del governo e le nostre critiche alla proposta approvata in questi giorni.
Innanzitutto con il termine Jobs Act si intendono una serie di interventi legislativi da parte del governo con lo strumento di decreti leggi e decreti legislativi. Nel nostro ordinamento, accanto alla legge “tradizionale”, approvata dal Parlamento sono previsti dei modelli di legge in cui è il governo ad esercitare la funzione legislativa, funzione tradizionalmente riservata alle Camere. È esercitando questa possibilità che il governo sta varando i provvedimenti costitutivi del Jobs Act. Il primo di questi è il cd Decreto Poletti, un decreto legge emanato lo scorso 12 marzo dal Consiglio dei Ministri, data in cui il governo ha contestualmente emanato un disegno di legge delega, molto articolato relativo a vari aspetti della riforma. Questo disegno, o meglio il cd maxiemendamento approvato dal governo, è il testo in discussione al Senato, recentemente approvato con la fiducia accordata dalla maggioranza. Questa necessaria premessa sull’iter legislativo serve a chiarire che quanto viene approvato in questi giorni al Senato non costituisce la riforma definitiva ma solo la legge delega, ovvero i margini entro i quali il governo sarà successivamente chiamato ad approvare una serie di decreti, che stando alle previsioni dovrebbero essere approvati entro la primavera 2015. Perché il governo ricorre alla forma del decreto legislativo? Per poter sottrarre il più possibile la discussione alle Camere, come spesso accade in casi di riorganizzazione di comparti normativi così ampi. Se dunque lo strumento non è nuovo, tuttavia è necessario sottolineare come i margini della delega concessa dal parlamento al governo in questo caso appaiano particolarmente elevati. Un esempio su tutti: l’articolo 18. Nel testo della legge delega non è mai direttamente menzionato, ma potrebbe rientrare dalla finestra nei decreti del governo data la genericità del testo della legge delega. Un enorme pacchetto dunque il cui impatto reale sarà possibile comprenderlo solo tra qualche mese – sempre che sia approvato definitivamente – con l’esercizio da parte del governo dei poteri delegati dal Parlamento. Procediamo ad analizzare la riforma, per quanto possibile allo stato attuale.
Il Decreto Poletti, varato lo scorso marzo, si caratterizza per la revisione del limite imposto ai contratti di lavoro a termine e al loro rinnovo, e per alcune modifiche alla disciplina del contratto di apprendistato.
Riguardo i lavori a termine il limite temporale è elevato dai 12 ai 36 mesi, con possibilità di prorogare più volte entro questo termine senza requisito della causalità, ossia liberamente, senza la necessità di legare tale rinnovo ad una specifica causa. In sostanza un passo indietro rispetto alla Legge Fornero, che aveva posto il limite a 12 mesi, successivamente ai quali scattava l’obbligo di assunzione a tempo indeterminato. Una legge che non funzionava perché aveva rigettato sui lavoratori le ricadute dell’applicazione, finendo per ottenere più licenziamenti e mancati rinnovi contrattuali che adeguamenti. Una chiara dimostrazione di come nel mondo della precarietà non possa esistere un sistema favorevole al lavoratore: o si abolisce la precarietà, o vincono sempre i padroni. La soluzione di abolire i contratti precari non è neanche lontanamente prospettata dal governo che dunque si limita ad aumentare a tre anni il massimo del termine dei rinnovo, superato il quale si riproporrà sempre il solito problema. Un ulteriore limite è posto alle aziende: i contratti precari non devono superare il 20% del totale degli assunti. Ma le deroghe sono molte: innanzitutto la regola non vale per le imprese sotto i 5 dipendenti, e importanti settori, come quello della ricerca – molto colpito dalla precarietà – sono esplicitamente esclusi nel testo del governo.
Quanto all’apprendistato oltre all’eliminazione di una serie di requisiti di forma, il decreto elimina le precedenti previsioni legislative secondo cui l’assunzione di nuovi apprendisti era necessariamente condizionata alla conferma in servizio di precedenti apprendisti al termine del percorso formativo. Tradotto il padrone potrà licenziare i vecchi apprendisti, o meglio non assumerli a tempo indeterminato, per assumerne nuovi apprendisti, con la conseguenza che l’apprendistato non garantisce assolutamente il posto di lavoro successivamente. La normativa precedente nel tutelare i vecchi apprendisti (e di rimando i nuovi) limitava l’assunzione di nuovi alla conferma dei precedenti, limite dal quale le aziende saranno esonerate grazie al governo Renzi. La convenienza la si capisce subito: la retribuzione per i contratti di apprendistato è fissata per legge al 35% del salario del lavoratore della categoria corrispondente, secondo quanto stabilito dalla contrattazione collettiva. Il decreto elimina anche l’obbligo di associare alla formazione aziendale una parte di formazione pubblica che era “finalizzata all’acquisizione di competenze di base e trasversali”. Dunque un apprendistato con competenze minori, più schiacciate sulle esigenze immediate delle aziende, meno qualificanti per i lavoratori, più vincolanti per le scelte future, con meno tutele e garanzie per il futuro del lavoratore.
Si può dire senza ombra di dubbio che il Decreto Poletti sia una normativa esplicitamente a favore della precarietà, delle imprese dei loro poteri di utilizzare lavoratori a basso costo e con minori tutele contrattuali come leva per la diminuzione dei diritti e dei salari dei lavoratori. Questo è il vero intento perseguito dal governo e non quello di “semplificare alcune tipologie contrattuali di lavoro, al fine di generare nuova occupazione, in particolare giovanile” scritto nel decreto a giustificazione dell’urgenza (che è requisito formale stabilito dalla legge – e sempre disatteso – per l’emanazione di un decreto legge)
(Continua)